Da Parma a Lampedusa per salvare vite in mare

L’esperienza della giovane medica

Elena Cremonesi con Mediterranea

La guardi questa ragazzona dai capelli rossi ginger mentre – nella sua felpa d’ordinanza blu con la scritta Mediterranea cerchiata da un salvagente, in pantaloni scuri e sneakers no logo – tiene incollata alle sedie, per tre quarti d’ora filati, la piccola folla venuta ad ascoltarla a Lostello in Cittadella.

È un attimo immaginarla e immedesimarsi in Elena Cremonesi quando esordisce dicendo che non era mai salita su una barca a vela e ha sofferto il mal di mare praticamente tutti i giorni. Intimorita, per via della nota sindrome dell’impostore e però con una missione da compiere: gli inconvenienti si superano e si sta ritti sulla tolda.

Sì, perché il 5 aprile scorso a Lampedusa, Elena è salita a bordo della Safira, barca a vela della Ong Mediterranea e in dieci giorni di navigazione ha contribuito a salvare 79 vite umane.

E qui è il momento di tirare il fiato e le fila del discorso.

Cominciamo dal fatto che Elena Cremonesi, 29 anni, specializzanda al terzo anno in medicina interna presso l’Ospedale Maggiore di Parma, non sembra proprio una medica. Questo l’avete già capito.

E il secondo fatto è che un mese fa era a svolgere la sua professione in mezzo al Mediterraneo, in quel tratto di mare tra Africa ed Europa, nel quadrilatero d’acqua salata tra Libia-Tunisia-Malta-Italia, per soccorrere i migranti che alla disperata, sui barconi, tentano di raggiungere le coste italiane per una salvezza e una vita migliore e, in tanti casi, l’unica vita possibile. E per questo così disposti ad affrontare il pericolo di morire.

Due salvataggi ha operato la Safira, nella missione #21 di Mediterranea, con a bordo Elena Cremonesi. Il primo, come leggerete, salvifico sul serio, scongiurando per poche ore un’ennesima tragedia. Il secondo intervento si è rivelato un appoggio fondamentale per condurre in porto un’altra barca.

Una lettura dei fatti che dovrebbe rendere orgogliosa tutta Parma di avere qui (dove ha studiato, si è laureata, è cresciuta) una giovane medica che non esita ad andare in prima linea per mettere le sue competenze a servizio delle sofferenze di quei popoli che hanno meno risorse e più bisogno di sanità, rinverdendo una tradizione di aiuti e interventi negli ospedali dei Paesi del sud del mondo, che si dipana negli anni, talvolta in situazioni di guerra, sotto spari e bombe (ne citiamo tre, senza far torto a nessuno degli altri medici che nel tempo si sono spesi, ed estendendo il riconoscimento a infermieri ed equipe mediche: il chirurgo Sandro Contini, il chirurgo pediatra Carmine Del Rossi, il cardiologo Franco Masini).

C’è forse una differenza: Elena Cremonesi ha lavorato in mare aperto, affrontando situazioni senza preavviso, davvero sul confine tra la vita e la morte.

Questo il suo racconto.

“Sono originaria dell’hinterland di Milano ho studiato a Parma perché mi piaceva il modo di lavorare che si ha in Emilia-Romagna, per cui ho scelto poi di intraprendere la carriera medica qua. Sono una specializzanda di medicina interna al terzo anno di specializzazione e fin dal tempo dell’Università molto interessata alla parte “diritti umani” e alla parte “medicina delle migrazioni”. Tant’è che frequento come volontaria lo Spazio Salute immigrati a Parma in strada 22 luglio. 
E il Centro salute della famiglia straniera di Reggio Emilia. Il mio progetto per la vita è proprio quello di dedicarmi come professione alla medicina delle migrazioni. Il paziente non europeo ha alla base un background culturale differente, per cui c’è una visione differente del dolore e della malattia, di come assumere i farmaci. Si tratta di non avere una visione solo occidentale: diciamo che l’obiettivo della medicina delle migrazioni è che non ci sia una medicina delle migrazioni, ma che tutto diventi poi una medicina con uno sguardo globale attento al paziente”.

Mediterranea l’ho sempre seguita, sui social, attraverso le newsletter cui ero iscritta, anche perché incarnava per me l’essenza di quelli che erano i miei ideali di studentessa all’inizio e poi di medico. Dopodiché ho scoperto nel 2022 che c’era appunto un equipaggio di terra (EdT) di Mediterranea a Parma, creato da Fabio Amadei. 
E allora non ho esitato un secondo e ne sono entrata a far parte. Da lì è stato un viaggio, una scalata con un panorama bellissimo, nel senso che da lì poi sono entrata a far parte del gruppo medico di Mediterranea e quindi ho incominciato a fare l’attivismo sia laico, nel nostro EdT di Parma, sia come medica nel gruppo sanitario. Sono partita per le prime missioni, sono stata in Ucraina mentre l’anno scorso ero stata a Oulx, sulla frontiera italo-francese, con un’altra Ong. E quest’anno dovrei tornare in Ucraina e poi insomma c’è stato questo…”

“Siamo partiti da Milano il 3 aprile. Il 5 siamo salpati e siamo rientrati il 15 aprile, quindi siamo stati in giro alla fine un paio di settimane più o meno, ecco. Era la prima volta in mare, e sì, è stato un battesimo di fuoco. Di missioni ne ho fatte varie, mi occupo di migrazioni da un po’ di anni e però all’inizio avevo un sacco di preoccupazioni. Ho detto chissà se sarò adeguata, chissà se sarò capace, chissà se… Insomma è una situazione oggettivamente, fisicamente e psicologicamente molto impattante. Ed ero anche preoccupata proprio a livello medico, nel senso che insomma io sono all’inizio, il mio collega medico sulla Safira invece è superstrutturato, un sacco di esperienze con tantissime Ong e ho detto: oddio, saprò cavarmela? Però poi il punto è che quando sei lì, gioca tantissimo l’adrenalina e soprattutto la motivazione per cui ci sei, perché se tu ti ripeti ogni giorno: queste persone non hanno, non avrebbero una speranza se noi non fossimo qua, anche un passo verso la loro salvezza è già tantissimo per loro, rispetto comunque a quello che si potrebbe pensare. Devi saperti dire “io sto facendo il mio lavoro e siamo qua in un team” e in questo modo si riesce a gestire il carico emotivo che si ha in questo tipo di missione”.

“Certo, una volta che è finito viene fuori tutta la sensibilità che ti è rimasta dentro e che magari in quel momento non hai potuto esternare perché era una situazione di emergenza, e dopo devi mettere insieme i pezzettini”.

“Mediterranea è un’associazione di promozione sociale fondata nel 2018 da persone che hanno deciso che non era più il caso di stare a guardare chi continuava ogni giorno a morire in mare, cercando di lasciare la propria terra, per qualsiasi tipo di ragione. E così con la nave Mare Ionio sono partite le prime missioni. Gli ostacoli che frappongono i governi sono noti. Però diciamo che siamo ancora qua, alla missione in mare numero 21, per cui direi che il nostro sogno lo stiamo portando avanti e anche molto bene, date le circostanze. È sorto un gruppo in Spagna e poi si sono attivati equipaggi di terra per intervenire a Trieste sulle rotte balcaniche e in Ucraina a supporto della popolazione sofferente per la guerra.

“Ora la mare Ionio è ferma per manutenzione, così siamo usciti con la Safira, una barca a vela che quindi ha caratteristiche molto diverse”.

“Per partire dalla mia esperienza ho portato una cosa. Questa che vedete (in foto ndr) che sembra la carta dell’uovo di Pasqua in realtà è una metallina ed è il simbolo di quello che si fa nel Mediterraneo. La metallina serve per avvolgere le persone di tutte le età perché è molto grande. Serve per avvolgere adulti, ragazzi, bambini, neonati, tutti quanti. 
È fatta di due colori, sembra solo carta, ma in realtà quando la metti addosso scalda tantissimo e lo dico perché l’abbiamo provata anche noi, effettivamente ci ha salvato in varie situazioni di gelo nel Mediterraneo, quando cala la notte. C’è questa parte in oro che viene messa all’esterno quando ci sono le vittime di assideramento: attira i raggi del sole, e le persone rimangono al caldo. La parte argento si rivolge all’esterno quando le persone sono ustionate e quindi non devono disperdere il calore, ma è importante che il calore venga mantenuto all’interno del corpo per mantenere le funzioni vitali. Questa metallina, questo semplice foglio che sembra carta ha salvato la vita a tantissime persone nella missione che ho fatto io, come era avvenuto in precedenza. Sembra una sciocchezza, ma in realtà il fatto di poter stare al caldo, non è purtroppo scontato per persone che viaggiano per più giorni nel Mediterraneo. 
E quindi, avere una di queste addosso ha salvato letteralmente la vita, soprattutto ai bambini e ai neonati”.

“Sulla Safira l’equipaggio era composto da due medici e altre sei persone, gli skipper e i rib driver che guidavano i gommoni di salvataggio e il capo missione.

Siamo partiti la sera tardi e nella notte, alle 2, abbiamo ricevuto subito la prima segnalazione da Frontex. Ci danno le coordinate, le mettiamo sul nostro radar e andiamo, un po’ lenti perché siamo una barca a vela. Siamo avvisati che è un gommone con sessanta persone tra cui donne in gravidanza e bambini, anche neonati. E io mi precipito a ripassare i volumi di tutta la facoltà di medicina. Ma cosa succede? Quando stavamo per arrivare vicino al nostro target vediamo una barca in vetroresina, visibilmente instabile, con a bordo persone che chiedevano aiuto. Nel frattempo era diventata mattina. Abbiamo fermato i motori e la cosa assurda era che non c’era nessun “may day” relativo a questa barca, nessuna segnalazione da Frontex, nessun allarme. Era una barca fantasma. Queste persone ci hanno raccontato che erano in mare da 52 ore, in condizioni cliniche precarie. Per salvarli va il rib (gommone semirigido) per informarli che siamo lì per soccorrerli, viene dato loro il giubbotto di salvataggio e, verificato se ci siano delle persone in arresto cardiaco o bisognose di terapie di emergenza. In questo caso non c’era bisogno e si è effettuato il trasbordo sulla Safira per le cure in modo un po’ meno adrenalinico, perché comunque diciamo che sono pazienti che hanno bisogno di cure mediche urgenti, ma non in emergenza. Quando hai finito ti viene da piangere, ti dici che non è possibile, queste persone in mare avevano perso ogni speranza e in quel momento abbiamo fatto proprio la differenza tra la morte e la vita. E non è una cosa che rimane tra di noi, ma ti chiedi che cavolo ha in testa la gente che li lascia lì, è quella la vera domanda che ci dobbiamo fare, è quello il problema.”

“Le cose più frequenti che si vedono sono ipotensioni, quindi svenimenti perché passano seduti, schiacciati, tante ore, e quando si alzano svengono, specialmente i bambini, quindi servono soluzioni fisiologiche, e anche farmaci in vena. La patologia più frequente sono le ustioni, derivanti da fuoriuscite di carburante da serbatoi inadeguati. I vestiti si appiccicano alla pelle, e quindi con tutta la calma e l’amore che si può avere in quelle situazioni con l’acqua pian piano si staccano per praticare le cure”.

“Nella prima uscita abbiamo salvato 28 persone, tutti maschi, la maggior parte minori non accompagnati del Sud Sudan e della Nigeria. Avevano ipotecato tutto per essere lì, in quanto perseguitati in patria. Uno era un ingegnere, parlava inglese e ci ha raccontato che aveva pagato l’equivalente di 6mila euro, obbligato per questo percorso di salvezza. Gli abbiamo detto: ma non avevi timore, il rischio di morire è molto alto. “Sì, ci ha risposto, ma “il bello” in queste acque è che in tre minuti perdi i sensi e non te ne accorgi di andartene”. Sono cose che ti rimangono e ti segnano dentro”.

“Siamo ritornati in porto a Lampedusa alle 2 del mattino. Dopo un giorno di riposo siamo ripartiti per una missione che si è rivelata molto impegnativa. Ci siamo diretti verso la Tunisia, ma per lungo tempo non abbiamo avuto segnalazioni, né si vedeva niente. Fino a che il capo-missione vede sul radar un velivolo che fa dei cerchi continuamente in mezzo al mare, una cosa un po’ strana. Però non c’era nessuna segnalazione né dalla guardia costiera né da Frontex, niente, zero, silenzio. Data l’esperienza pregressa dell’equipaggio abbiamo deciso di “andare a vedere”. Dunque giriamo la barca, mettiamo le coordinate e ci dirigiamo subito verso quel punto; arrivati a quattro miglia, a tre miglia, incominciamo a scorgere un pallino nero in lontananza, col binocolo. È una barca, poi più ti avvicini vedi le manine che si muovono, vedi la gente che alza i bambini per farti vedere che ci sono dei bambini a bordo, insomma vedi una serie di cose. 
Noi ci avviciniamo sempre di più, pensavamo di essere da soli, perché ci siamo detti vabbè, qua nessuno li ha visti, magari loro non hanno neanche mandato un may day… 
Sono proprio dispersi alla deriva, sicuramente, perché non si muovono. E invece, senza che ci fosse arrivata alcuna segnalazione radio, vediamo comparire dal niente una grande nave bianca, della Guardia costiera. Ci è venuto il timore che fosse la guardia libica che volesse riportarli indietro, perché hanno le stesse navi italiane, dato che lo Stato italiano le ha fornite alla Libia, negli accordi che sappiamo. Grazie a Dio invece era la Guardia costiera italiana, che è intervenuta, ha fatto il trasbordo di 50 persone, donne, bambini e si sono diretti a Lampedusa più velocemente di quanto avremmo fatto noi. Il nostro capo-missione ha chiesto “ma, scusate, se eravate vicini, perché non siete intervenuti prima, perché non avete detto niente?”. C’era un concreto rischio di naufragio per quel barcone alla deriva. Non abbiamo ricevuto risposta e questo ci spinge a delle riflessioni, che lasciamo aperte. Insomma, per fortuna che siamo intervenuti”.

Elena Cremonesi, segnatevi questo nome, ne sentiremo parlare.

Francesco Dradi

Un episodio di guerriglia (strada della Cisa, novembre ’44)

Nella notte fra il 6 e il 7 novembre 1944 squadre dei Distaccamenti “Carpi”, “Stomboli” e del Comando Brigata della 12^ Garibaldi per complessivi 60 uomini, condotti personalmente dal Comandante la Brigata, Dario, si appostavano sulla strada nazionale della Cisa nel tratto fra Casola e il Bivio Terenzo per attaccare colonne nemiche.

Abbiamo il privilegio di pubblicare un racconto inedito su uno dei tanti avvenimenti della guerra di Liberazione dal nazifascismo. L’episodio è narrato in prima persona dal partigiano Enzo Gabrielli “Vispo”, che ha lasciato una testimonianza scritta della sua vita partigiana, dall’estate ’44 alla Liberazione nell’aprile ’45. Un fascicoletto fornito dal figlio Gabriele, assieme ad alcune foto e al rapporto del Comando della 12^ Brigata Garibaldi, che trovate ivi riprodotte. Quella notte di novembre del ’44 “Vispo” aveva 19 anni.

Un episodio di guerriglia

7 Novembre 1944, strada della Cisa, Casola di Terenzo

Un giorno il comando diede l’ordine di preparare 20 uomini con il miglior armamento possibile perché nella notte avremmo dovuto attaccare una forte autocolonna nemica. Verso sera eravamo già pronti. Il nostro distaccamento “Carpi” contava circa 35 unità, perciò sarebbero rimasti a difesa della località in 15.
Ricordo che prima di partire diedi il portafoglio contenente poco danaro e qualche fotografia a un Partigiano che rimaneva raccomandando di consegnarlo ai miei parenti, qualora non fossi tornato; e così fecero buona parte dei 20 compagni prescelti.
Ci dirigemmo nella località di appuntamento, che era Ravarano, dove avremmo trovato altri 40 Partigiani, con i quali insieme avremmo dovuto portarci in località Casola, dove probabilmente avrebbe dovuto aver luogo l’attacco.

Ci furono brevi parole da parte del comandante il quale, dopo aver trcciato l’organizzazione e il punto preciso dove avremmo intercettato la colonna nemica, disse anche che dovevamo colpire e poi, anziché fuggire, come era nella caratteristica della guerriglia, tentare di impossessarci degli automezzi rimasti efficienti, con tutto il materiale possibile.
Ci incamminammo verso il torrente Baganza; erano i primi di novembre, l’acqua era molto alta e, per attraversarlo, facemmo uso di una funivia per il trasporto della legna, così si attraversò senza nessun bagno fuori stagione.
Passando vicino a un gruppo di case ci levammo le scarpe perché gli abitanti, sentendoci, sarebbero usciti per curiosità e, accendendo qualche luce, avrebbero potuto attirare l’attenzione dei tedeschi di stanza a Cassio e mandare a monte tutti i nostri piani.

Dopo mezz’ora di ripida ascesa arrivammo sulla statale della Cisa, ed ecco improvvisamente spunta da una curva, distante qualche centinaio di metri, una colonna di automezzi tedeschi. Noi del “Carpi” eravamo in quel momento nel mezzo della strada e, senza esitare un attimo, ci gettammo nei fossetti laterali, mentre gli altri che stavano ancora salendo si buttarono a terra lungo il ripido pendio.
Gli automezzi ci passarono vicinissimi e mi ricordo sempre di quelle ruote gigantesche, che non finivano mai più di passare.
Io ero dalla parte destra della strada, andando verso Berceto, e ricordo che quei mastodontici automezzi mi passarono a poche decine di centimetri… naturalmente sembravano tanto più grossi, data la mia posizione di inferiorità in cui mi trovavo. Ero disteso dentro il fosso di schiena e con lo sten in posizione di fuoco.
Vedevo le sagome dei tedeschi dentro i camions e penso di essere rimasto senza respirare qualche secondo in più delle mie capacità respiratorie.
Gli altri compagni, che in quel momento si trovavano pressapoco nella mia stessa posizione, penso che anche loro abbiano passato un attimo di grande paura. Se i tedeschi si fossero accorti della nostra presenza sarebbe stato un massacro, poiché avrebbero lanciato decine di bombe, che tenevano sempre a portata di mano.

Il partigiano Enzo Gabrielli “Vispo”, primo a destra, con alcuni compagni del distaccamento Carpi, 12^ Brigata Garibaldi

Terminato questo spavento ci si radunò; il comandante diede l’ordine di prendere immediatamente posizione, come stabilito nella riunione di Ravarano e cioè: una mitragliatrice in principio dello schieramento poi, per un km, dislocati su vari cucuzzoli, caratteristici della statale della Cisa, i 60 Partigiani, in fondo un’altra mitragliatrice.
Queste armi all’inizio e alla fine non avrebbero permesso nessuna fuga al nemico. Il comandante, posto al centro dello schieramento, avrebbe dato il via all’attacco con una raffica di mitra.
Era quasi mezzanotte, che si sentì un ronzio di automezzi ma, essendo pochi, 4 o 5 in tutto, e non la colonna prestabilita, il segnale dell’attacco non venne dato.
Aspettammo più di un’ora, io mi ero persino addormentato sulla roccia, nonostante il freddo intenso, quando udii un mio compagno che svegliandomi, disse: “Sono qui”.

Erano decine di automezzi pesanti, macchine di ogni tipo che entravano nella trappola da noi tesa.
Preparai in fretta la bomba e, a questo proposito, vorrei ricordare che in tutto il distaccamento ne avevamo due; poi tolsi la sicura dallo sten.
In quel momento si sentì la raffica del comandante che segnalava di aprire il fuoco. Io e l’altro compagno lanciammo le bombe, poi incominciammo una sparatoria infernale, qualche macchina tentò la fuga, ma fu inchiodata dal fuoco delle mitragliatrici e dei fucili mitragliatori.
Per oltre mezz’ora fuoco continuo, poi per un attimo silenzio di tomba, solo qualche gemito giungeva dagli automezzi distrutti; fu in quel breve periodo che si levò, dal bel mezzo della colonna tedesca, un razzo. Era il segnale di soccorso che un soldato tedesco era riuscito a lanciare.

Il comandante però ordinò ugualmente di avvicinarsi al groviglio di automezzi ma, una bomba a tempo, lanciata da un nemico ferito, scoppiò in mezzo al drappello che scendeva verso i camions e il comandante del nostro distaccamento rimase gravemente ferito (il partigiano “Guerra” fu colpito al petto dallo scoppio della bomba, per sua fortuna indossava un giubbotto protettivo dell’esercito inglese che in qualche modo attutì il colpo, altrimenti mortale ndr).
Mentre il compagno Ivan finiva a colpi di mitra il tedesco che aveva lanciato la bomba io, alzatomi, poiché lo scoppio mi aveva buttato a terra, cercai di trascinare il corpo svenuto del nostro comandante, ma non riuscendo da solo chiamai altri compagni in aiuto, con i quali si raggiunse una cascina, ove i contadini deposero il ferito sopra una specie di barella che, poi attaccata ai buoi, lo portarono verso Ravarano.

Mi ricordo che risalii di nuovo verso la zona di combattimento ed incontrai il comandante di Brigata, il quale aveva già dato l’ordine di ritirarsi in piccoli gruppi. Certamente temeva la reazione nemica che sarebbe arrivata da Fornovo e da Berceto.
L’alba incominciava a spuntare quando tutti stavamo rientrando alle Chiastre.
Ci buttammo sui pagliericci esausti, vestiti, con le scarpe, con le armi addosso, e ci svegliarono verso mezzogiorno, per mangiare, i compagni che non avevano partecipato all’azione.

Gabrielli Enzo partigiano Vispo
Distaccamento Carpi, 12^ Brigata Garibaldi

Il rapporto del Comando della 12^ Brigata Garibaldi sull’assalto all’autocolonna tedesca nel novembre 1944
Il partigiano “Vispo” al centro della foto, in festa dopo la Liberazione, in via D’Azeglio, Parma.

Il Giornalär abbassa la serranda

Un’altra edicola che chiude, con quel che comporta.
Paolo Corradi, “al Giornalär di via Trieste, qualche giorno fa ha abbassato per sempre la saracinesca, per godersi la meritata pensione.
Abbiamo raccolto ricordi e impressioni di vita e di mestiere.

«I miei genitori a fine anni Sessanta rilevarono l’edicola in via Farini. – racconta Paolo, al GiornalärPoi si sono spostati in via Garibaldi. E a un certo punto presero anche l’edicola in via Verdi, così ne avevano due. Io davo loro una mano, ma ho fatto studi da elettrotecnico e per diversi anni ho lavorato come elettricista. Quando mio padre è morto ho affiancato mia madre in via Garibaldi, nel ‘97 e poi ho rilevato l’edicola in piazzale Picelli. Era il 2000. Era un’edicola notturna o meglio era aperta 24 ore. È stata una bella esperienza. Facevo molte notti. Eravamo in tre a gestirla, ma considerando che una era donna, la notte in larga parte la facevamo io e il mio socio. Il turno era dalle nove di sera alle sei di mattina.
Il chiosco dell’edicola era vicino alla chiesa di Santa Maria del Quartiere, prima che il Comune rifacesse piazzale Picelli, proprio in quegli anni, smantellando il chiosco. Allora abbiamo rilevato la cartoleria che faceva angolo con via Costituente, trasferendoci l’edicola. Dove adesso c’è il Canapaio ducale».

«E lì abbiamo trascorso 5 anni, davvero una bella esperienza. Divertente, soprattutto per la notte.
Ho conosciuto dei personaggi curiosi e interessanti che con la scusa del giornale passavano per far due chiacchiere in orario notturno. Si fermavano: due chiacchiere e la Gazzetta.
Quando ancora non c’era internet, era agli albori, non così diffuso e quindi il giornale era atteso. Caspita se era atteso.
A mezzanotte, o meglio tra mezzanotte e l’una, arrivavano 200 gazzette, la prima edizione. E andare alla mattina ne rimanevano ben poche. Adesso in tutto il giorno vendo 80 copie della Gazzetta. Sì, lo ricordo come un periodo molto divertente. Uno che passava sovente era Nello Fochetti, lo showman. Ogni tanto faceva delle riprese per i suoi video, scherzava molto.

Dopo ho fatto una pausa, nel senso che dal 2006 al 2013 ho lavorato nel centro di fisioterapia in via Lasagna, come segretario. Poi ho sentito che mi mancava questo lavoro. C’era l’occasione dell’edicola in via Trieste e l’ho rilevata. E da poco ho anche traslocato casa dall’Oltretorrente a San Leonardo, in via Venezia.

La bellezza del lavoro dell’edicolante è il contatto con la gente. Perché passerà anche adesso, tutt’ora, almeno un centinaio di persone al giorno. E in un’edicola di quartiere si crea un rapporto di amicizia. Diventa un punto di aggregazione e anche per iniziative. Per dirne una con un amico abbiamo raccolto fondi per l’ospedale, così, con semplicità.
Era diventato un punto di riferimento per il quartiere che adesso mancherà».

Il giornalär oltre che i giornali offriva piccoli servizi: fotocopie, cancelleria, punto ricezione e spedizione pacchi.

«Ho provato a vendere la licenza ma nessuno si è voluto impegnare a portarlo avanti. Il prezzo? 30 mila euro trattabili. Il fatturato si aggira sui 120 mila euro all’anno. Quindi togliendo tutte le spese… ci viene fuori lo stipendio, ma non è che… uno stipendio normale.
Sì, ma con l’inconveniente di essere impegnato 28 giorni su 30. E con quali orari. Dalle 5 e mezzo di mattina all’una del pomeriggio e poi dalle quattro alle sette. Tutti i giorni feriali tranne il sabato pomeriggio che lo dedico all’Assistenza Pubblica.
Sono gli orari che frenano gli eventuali acquirenti, più che l’aspetto economico.
Io iniziavo alle 5 e mezzo per portare i giornali ai bar dei dintorni, che aprono alle 6. Era un impegno che mi ero preso e facevo volentieri.
Per il resto l’edicola potrebbe aprire anche alle sei e mezza, prima di quell’ora non si vede nessuno».

«Eh sì, le edicole andranno a sparire, temo. Più che internet, che ha dato una bella botta all’inizio con i primi giornali online ma poi si è assestato, devo dire che la rovina degli edicolanti è stata la liberalizzazione delle vendite dei giornali nei supermercati. Si è creata un’abitudine per cui molte persone comprano le riviste nei supermercati, facendo la spesa. Qui si viene ancora per il quotidiano, specialmente la Gazzetta che con la tessera (per gli abbonati ndr) si può prendere solo in edicola.

Devo dire che è venuta a mancare un po’ di qualità nei giornali. Di giornalisti seri ce n’è meno e poi si trovano molti errori. Sì, tanti errori, tanti strafalcioni vedo».

E adesso che smette? Che sentimenti ha?

«Per il momento sono contento. Finalmente potrò dedicare un po’ di tempo ai miei hobby a partire dalla musica: riuscirò a riprendere a suonare… il basso elettrico. Suonavo nella band dei Rocchettari.
Poi ho la moto, il giardino da curare, i gatti… Ho 6 gatti, sa? Ne ho di cose da fare. Tornerò a fare qualcosa sull’elettronica… Quindi un po’ c’è anche un senso di liberazione, via.
Quando uno arriva alla fine del lavoro, dice… Finalmente!
Mi dispiacerà per il rapporto che si è creato con i clienti. Quello sì, mi dispiacerà un po’».

Francesco Dradi

Clima, la crisi si spiega da sola

A fine luglio 100 scienziati italiani hanno inviato un accorato appello ai media: “Giornalisti, parlate delle cause della crisi climatica, e delle sue soluzioni”. Raccogliamo volentieri questo invito che, peraltro, rientra a pieno titolo nella linea editoriale di Libera Informazione in Parma. Al proposito abbiamo intervistato uno dei firmatari, Donato Grasso, docente di zoologia e biodiversità animale all’Università di Parma.

Qui la lettera degli scienziati.

Cogliamo l’occasione anche per segnalare un estratto del libro “L’era della giustizia climatica. Prospettive politiche per una transizione ecologica dal basso” scritto dal sociologo parmigiano Emanuele Leonardi assieme a Paola Imperatore, studiosa di conflitti sociali. Qui il link al primo capitolo.

di Chiara Bertogalli

Professor Grasso, lei è tra i firmatari ad aver sottoscritto la lettera indirizzata ai media da parte di un lungo elenco di scienziati e studiosi in prima linea negli studi sui cambiamenti climatici in Italia. Nella lettera (link) si chiede che vengano spiegate anche le cause dei fenomeni atmosferici che purtroppo abbiamo visto numerosi in questa calda estate, e si chiede che siano chiarite le soluzioni da intraprendere per mitigare l’incremento di temperatura prodotta dai gas serra che l’uomo immette in atmosfera bruciando combustibili fossili. Alla base della richiesta c’è il pericolo di non mettere le persone nelle condizioni di comprendere che agire si può ancora, che un cambiamento per il meglio è possibile, condannandoci ad un futuro di impotente ed inerme rassegnazione. Giorgio Parisi, premio Nobel per la Fisica, ha usato un paragone molto calzante: è come se durante l’epidemia di covid si fosse dato notizia solo dei morti senza spiegare che la causa era un virus.
Il tema della scarsa copertura mediatica dell’emergenza climatica è una delle molle che, nel 2019, mi hanno portato in piazza agli scioperi per il clima. Sono quindi almeno 5 anni che se ne parla, tuttavia solo pochi giorni fa, nel suo intervento alla Cerimonia del Ventaglio con la stampa parlamentare il Presidente Mattarella ha messo in guardia tutti i media rispetto al negazionismo e al perdere tempo in discussioni circa fatti ormai assodati, discussioni che a lui (e a noi) sembrano “francamente sorprendenti”. Nel 2019 le proteste studentesche guidate da Greta Thunberg richiamavano l’attenzione del mondo su qualcosa che stava arrivando. Ora, con fenomeni estremi sempre più frequenti ed un clima italiano che si avvia alla tropicalizzazione, la crisi climatica si sta spiegando benissimo da sola: reagire alla crisi infatti non è tanto questione di se, ma di quando: i danni e le vittime sono destinati a crescere se non interveniamo in maniera preventiva e massiccia. Sarebbe intuitivo dare spiegazioni delle cause, in maniera da poter intraprendere le azioni dirette ad eliminarle, quelle cause. Viene allora da domandarsi quale tassello manca, o è mancato, fra il mondo scientifico e i media e perché, invece, all’estero il tema è ampiamente coperto. Quale la sua interpretazione?

Ho ritenuto assolutamente opportuno appoggiare questa iniziativa proposta da alcuni colleghi della Comunità Scientifica del WWF (Antonello Pasini, Giorgio Vacchiano e Cristina Facchini) e supportata poi dal resto della Comunità e da altri scienziati, tra cui il Nobel Giorgio Parisi. Il tema della comunicazione delle informazioni scientifiche al grande pubblico e della necessità di farlo in modo corretto ed efficace è fondamentale in tutti gli ambiti, ma è davvero urgente e improrogabile nel caso dei processi e fenomeni legati alla crisi ambientale. Tra questi il tema dei cambiamenti climatici intorno al quale stiamo assistendo sui media ad una girandola di affermazioni spesso scorrette nei contenuti tecnici ma che a volte rasentano il ridicolo nelle modalità.
Ha ragione chi considera sorprendenti le discussioni che mettono in dubbio il cambiamento climatico globale e le cause antropogeniche di questo. Bisogna sgomberare il tavolo da incertezze, non si tratta di ipotesi o congetture bensì di fatti molto ben documentati. Ma queste incertezze, dubbi e tendenze negazioniste rimangono e prosperano tra il pubblico probabilmente proprio a causa delle modalità con cui le informazioni vengono trasmesse.

Un interessante studio condotto in modo molto dettagliato da Greenpeace nel 2022 su tutti i mezzi di comunicazione di massa (quotidiani, magazine, programmi radio e televisivi) ha sottolineato che nonostante l’intensificarsi degli eventi estremi sia ormai ben evidente a tutti, il problema climatico non viene raccontato in Italia per quello che è: un’emergenza che minaccia la vita sul pianeta e la sicurezza delle persone. Scarsissima è stata l’attenzione generale al fenomeno con pochissimi articoli al giorno pubblicati nel 2022 dai quotidiani italiani. Persino quando si parla di eventi estremi, la connessione con i cambiamenti climatici è riconosciuta in appena un quarto delle notizie trasmesse dai telegiornali. Ovviamente ciò con le dovute eccezioni. Nel 2023 forse le cose sono migliorate leggermente ma il problema rimane ed è per questo che è stato rivolto l’appello ai media. Il problema è in parte dovuto alle forti influenze sui media del potere politico ed economico e in parte della scarsa alfabetizzazione scientifica e partecipazione alle questioni ambientali del pubblico (i fruitori dei media). Questo innesca un circolo vizioso che sicuramente influisce sulla qualità del prodotto.

A mio parere, il problema nella comunicazione in questo ambito è molteplice.
A) È necessario sottolineare che il cambiamento c’è ed è in atto da tempo; non è vero che si tratta di un problema del futuro ma ahimè riguarda l’oggi e alcuni popoli della terra, ad esempio nel Sud-est asiatico, lo stanno sperimentando già molto più pesantemente di noi. Dire che nei prossimi anni ci sarà il cambiamento climatico è sbagliato. La crisi è già in atto e, sfortunatamente, alcuni processi sono già ampiamente compromessi e irreversibili. A questi dovremo far fronte con azioni di adattamento che non sono un aspetto secondario da considerare e studiare.

B) Il tempo atmosferico non è il clima. È assurdo far riferimento all’anno 1955 o alla calda estate del ’67 per affermare che quello a cui assistiamo oggi non è un fenomeno così strano e che d’estate ha fatto sempre caldo anche con situazioni estreme (“La ricordo bene quella estate quando ero bambino”). Quello non è il clima. Le misurazioni del clima hanno un “passo” temporale di decenni e riguardano situazioni medie, non certo misurazioni puntiformi e limitate nello spazio. Se guardiamo il fenomeno, quindi ad una distanza temporale e spaziale maggiore del singolo evento, i dati ci dicono chiaramente che la tendenza all’aumento delle temperature medie globali (ma anche di altri fenomeni associati come ad esempio il ritiro dei ghiacciai delle zone temperate o la perdita di ghiaccio marino artico) è in rapida salita, con tutte le conseguenze su vari processi ambientali che questo comporta, tra cui l’aumento dell’intensità e della frequenza di eventi estremi.

È importante precisare che le oscillazioni climatiche (come accade per molti altri fenomeni naturali globali) ci sono sempre state e fanno parte della storia naturale del nostro pianeta, ma la tendenza generale nell’andamento dei valori di queste oscillazioni è in rapida salita, molto più rapida di quanto ci dovremmo aspettare se la causa alla loro base fosse solo naturale. E questo ce lo dicono i dati rilevati dagli scienziati di tutto il mondo da decenni.

C) A tale proposito è importante sottolineare che viviamo effettivamente in un periodo interglaciale (da circa 12.000 anni) con tutto ciò che questo comporta. Le variazioni climatiche hanno, quindi, una componente naturale (ciò è già successo più volte nella storia della Terra) ma quello che viene omesso dai detrattori non informati (o in malafede) è il fattore tempo e la rapidità con cui questi processi si stanno verificando rispetto al lontano passato. Le modifiche a cui stiamo assistendo, non stanno procedendo con il passo dei tempi geologici (centinaia di migliaia o milioni di anni) ma stanno facendo sentire il loro effetto nel corso di pochi anni o decenni.

D) Le cause. È questo il punto cruciale sottolineato dall’appello. Non basta descrivere il fenomeno ma, ai fini della sua comprensione e risoluzione, è fondamentale elencarne le cause che sono in gran parte antropogeniche, ovvero derivanti dalle attività umane che negli ultimi due secoli (con una impennata a circa metà del secolo scorso) hanno trasformato drasticamente il pianeta e la sua atmosfera. Le curve che descrivono l’andamento nel tempo di parametri legati al clima (ad esempio l’aumento medio delle temperature globali) sono in aumento progressivo proprio in corrispondenza dell’inizio e consolidamento di quelle attività umane che hanno comportato il rilascio di grandi quantità di gas serra come la CO2. Non c’è alcun dubbio quindi: la causa di questi cambiamenti innaturalmente celeri sono le attività umane e lo attestano migliaia di studi a livello mondiale che hanno anche analizzato l’impatto relativo di cambiamenti naturali e quelli antropogenici.

E) A questo punto, se conosciamo le cause (le emissioni di gas serra prodotte dall’utilizzo di combustibili fossili) abbiamo a disposizione anche le possibili soluzioni prioritarie che, per quanto complesse e difficili possano essere, devono essere comunicate senza omissioni o giri di parole: la rapida eliminazione dell’uso di carbone, petrolio e gas, e la decarbonizzazione attraverso le energie rinnovabili. Non solo questa è la strategia giusta per fermare l’aumento delle temperature, ma è in gran parte tecnologicamente ed economicamente attuabile già oggi.

Il risultato di un processo comunicativo corretto e completo implica che anche i singoli cittadini possano essere artefici del cambiamento e quindi parte della soluzione a diversi livelli. Non affrontare il problema omettendo questi punti o trattandoli in modo scorretto o superficiale non fa che aumentare il senso di impotenza da parte del cittadino (“Cosa posso farci io visto che è sempre stato così e sempre sarà, si tratta di cicli naturali”) oppure, cosa ancora più grave, di negazione del problema stesso.

I cambiamenti culturali più importanti nella storia recente si sono innescati a partire dal mondo universitario, che per primo coglie, incuba ed irradia lo spirito del tempo. Nel caso della crisi climatica, molti ambiti sono fortemente coinvolti, oltre a quello strettamente scientifico, perché gli effetti sociopolitici della desertificazione di alcune aree del mondo si stanno già vedendo attraverso le migrazioni e le alluvioni di paesi anche distanti da noi. Da decenni i climatologi lanciano allarmi inascoltati: ma è come se mancasse una rete culturale a raccogliere ed interpretare i segnali. In ambito governativo la cronaca recentissima vede ministri della Repubblica, fra cui quello dell’Ambiente Pichetto Fratin e delle Infrastrutture Matteo Salvini esporre pubblicamente i loro dubbi nel migliore dei casi, e nel peggiore dileggiare con fare canzonatorio chi, fra i giovani, soffre di ecoansia. Lo scienziato cerca giustamente di mantenere un’equidistanza dalla politica, ma quando si sconfina nella responsabilità di negare evidenze scientifiche, visti i danni alla sicurezza della collettività che si dovrebbe invece proteggere, i confini fra scienza e politica si fanno più sottili. È etico tacere di fronte al negazionismo?

Rispondo subito all’ultima parte della sua riflessione. Di fronte ad atteggiamenti che, nella migliore delle ipotesi, evidenziano forte ignoranza nei confronti di un problema così grave che coinvolge la salute e il benessere della popolazione e dell’intero pianeta, tacere non è né etico né funzionale alla risoluzione dei problemi. Gli scienziati da decenni cercano di fare la loro parte sebbene i loro appelli rimangano spesso colpevolmente inascoltati.
Le prime denunce vibranti della crisi ambientale globale in atto e della insostenibilità degli impatti antropici sono state lanciate da scienziati e associazioni ambientaliste fin dagli anni ’50-’70 del secolo scorso. Gli appelli si sono susseguiti numerosi. Nel 1992 un primo importante “Warning to Humanity” sottoscritto da 1700 scienziati tra cui gran parte dei Premi Nobel allora viventi che avvertiva l’umanità dell’impatto sempre crescente e pericoloso dei cambiamenti globali in atto. Ebbe una certa risonanza anche mediatica ma non l’effetto sperato sulle politiche ambientali del mondo. Nel 2017 una ulteriore disperata lettera all’Umanità da parte di 15 mila scienziati di 184 Paesi di tutto il mondo (che mi onoro di aver sottoscritto). Un grido di allarme reiterato sul tempo perso e sul poco tempo a disposizione: in 25 anni davvero poco è stato fatto per limitare i danni provocati dall’uomo riguardo al cambiamento climatico, deforestazione, perdita di biodiversità, mancanza di accesso all’acqua, sovrappopolazione etc.
In questo caso l’eco mediatica dell’appello (anche in Italia) è stata molto maggiore, anche per i progressi tecnologici e di diffusioni social delle informazioni intervenuti nel frattempo rispetto agli anni 90. Sono seguiti altri appelli più circostanziati, uno del 2020 dedicato strettamente al cambiamento climatico. Nel frattempo, le COP (Conferences of the Parties) sulle diverse crisi ambientali hanno continuato a susseguirsi a testimonianza della necessità di fare qualcosa, delle buone intenzioni di farle ma anche spesso della inefficacia delle (poche) azioni messe in atto fino a quel momento. Gli interessi sociopolitici ed economici in gioco sono tanti e spesso in conflitto tra le parti e con gli interessi ambientali che sono però di tutti, minando in partenza l’efficacia stessa dei vari tavoli di discussione per il raggiungimento di accordi comuni.

A ciò si aggiunge, ed è verosimilmente una importante causa di insuccesso, un pesante problema generalizzato di incompetenze su temi ambientali, nonché di percezione e sottovalutazione della gravità del problema. Ci troviamo a dover lottare con negazionismi, fake news e atteggiamenti derisori e irresponsabili anche da parte di chi invece dovrebbe provvedere alla risoluzione di questi problemi.

Ecco perché ritengo che tra le azioni urgentissime da mettere in atto per contrastare la crisi ambientale vi sia anche una vera e propria rivoluzione culturale che porti ad una consapevolezza più profonda e diffusa al di fuori della ristretta cerchia degli addetti ai lavori del problema dei cambiamenti globali e delle loro conseguenze, un cambio di mentalità generalizzato sulle questioni che riguardano la natura e il nostro posto in essa e, infine, una conseguente modifica strutturale e stabile del nostro modo di stare al mondo. È vero, non si può scindere il benessere del pianeta dal benessere delle persone, senza un’equità sociale ed economica, senza pensare al nostro mondo come ad un sistema unitario che richiede unità di azioni e solidarietà tra i popoli. Lo hanno evidenziato molto bene gli obiettivi della Agenda 2030 dell’ONU in cui il tema dello sviluppo sostenibile è declinato in vari modi interconnessi, dalla salvaguardia della biodiversità alla riduzione della povertà e miglioramento della salute per tutti.
Come lei stessa ha evidenziato, è fondamentale riconoscere che il dominio economico e quello sociale sono fortemente interconnessi al dominio ecologico e da questo dipendono. L’ignoranza sulla storia planetaria e sulle dinamiche e i processi naturali che la caratterizzano da parte della gran parte dei decisori mina qualsiasi ambizione di modernità verso un futuro in armonia con il nostro pianeta, di vera transizione ecologica e di anelito alla tanto declamata sostenibilità.

Oltre alla dimensione nazionale, certamente importantissima, vi sono almeno altre due dimensioni nelle quali la vita quotidiana di ciascuno di noi impatta ed è impattata: quella continentale e quella locale. Se l’Europa, pur con tutte le difficoltà, mostra di essere sempre un passo avanti per politiche negli ambiti di conservazione della biodiversità (ricordiamo le direttive Habitat e Uccelli), energetico e ambientale, In ambito locale si ha l’impressione di incidere meno e anche che gli amministratori, eccetto pochi casi, “sonnecchino”. Eppure, la gestione del suolo, della cementificazione, delle risorse idriche e della mobilità sono solo alcuni dei temi cardine sui quali localmente la partita è apertissima e di fondamentale importanza per la vivibilità del territorio. Scendendo nel pratico, cosa vede all’orizzonte? Esistono gruppi di ricerca che possono indirizzare l’amministrazione di Parma e dei comuni della provincia verso un orizzonte di resilienza, adattamento e mitigazione? Oppure è ancora necessario agire sulla divulgazione corretta, anche tramite la stampa?

Aggiungo che a livello europeo registriamo un recentissimo e importantissimo successo in ambito ambientale con la approvazione della Nature Restoration Law, la nuova legge sul ripristino degli ambienti naturali che promuove la biodiversità e l’azione per il clima in tutta Europa e apre la strada, sebbene ci siano ancora molti correttivi da apportare, ad azioni ancora maggiori e più profonde volte alla salvaguardia dell’ambiente. Ai problemi globali si aggiungono (e spesso ne sono un tassello importante) anche quelli locali e territoriali, a scale di diversa grandezza a seconda della “zoomata” che facciamo. A ogni livello, comunque, ciascuno deve fare la propria parte. La soluzione dei problemi grandi o piccoli, globali o locali che siano parte da azioni individuali, di comunità e sociali.

L’Università di Parma e nello specifico il Dipartimento di Scienze Chimiche, della Vita e della Sostenibilità Ambientale di cui faccio parte sta lavorando molto nello studiare i fenomeni, individuare azioni di salvaguardia ambientale, proporre soluzione dei problemi della crisi in atto e idee per una vera transizione ecologica e sviluppo sostenibile che verranno messe a disposizione di tutti. Occupandomi di tematiche legate allo studio, salvaguardia e conservazione della Natura e in particolare della biodiversità, mi fa piacere sottolineare il forte impegno di molti ricercatori del nostro Dipartimento in questo ambito e delle numerose collaborazioni instaurate con le più importanti Istituzioni che operano nel territorio, il Comune di Parma e altri Comuni del parmense, l’Arpae, l’Ente Parchi per la Biodiversità dell’Emilia Occidentale, il Parco Nazionale dell’Appennino Tosco-Emiliano e l’Autorità di Bacino del fiume Po.

Un esempio di progettualità recentemente messa a punto per favorire sinergie con gli Enti Locali per una valorizzazione del territorio parmense ma con uno sguardo rivolto anche al resto dell’Italia e dell’Europa è rappresentato dalla ideazione del Centro Europeo di Ricerca su Biodiversità & Funzionamento degli Ecosistemi in Appennino. Il progetto necessita di adeguati finanziamenti per essere avviato, ma le basi culturali sono solide e l’impegno assicurato dai vari gruppi di ricerca coinvolti, tra cui il mio, lo sono altrettanto. L’idea è nata in seno al nostro Dipartimento grazie all’impegno del collega Rossano Bolpagni che se n’è fatto promotore. Il Centro avrà come principale missione lo studio multidisciplinare della biodiversità e del funzionamento degli ecosistemi per elaborare, mettere a punto e sostenere modelli di sviluppo basati sulla valorizzazione e la conservazione del capitale naturale e dei prodotti agro-alimentari. I ricercatori saranno impegnati ad indagare i processi di trasformazione del paesaggio dell’Appennino, anche alla luce delle crisi ambientali in atto, e a individuare strategie e soluzioni comuni di mitigazione degli effetti indotti da questi cambiamenti.

Lei fa parte di un’istituzione che incide fortemente sugli equilibri del territorio. Secondo Lei quale ruolo può svolgere l’Università di Parma? Il nuovo rettore Martelli dovrebbe ripristinare il delegato alla Sostenibilità? E la cosiddetta Terza Missione (valorizzazione della conoscenza nei rapporti con cittadinanza e territorio) può essere maggiormente orientata sulla sensibilizzazione al climate change?

Oltre a quanto già detto prima sui rapporti con il territorio, l’Università incide fortemente nella formazione culturale e professionale delle nuove generazioni. Da docente e Presidente di un Corso di Studi in Scienze della Natura e dell’Ambiente sento forte questa responsabilità, soprattutto quando i temi sono quelli di cui abbiamo parlato. Ma è anche una sfida che diventa fonte di soddisfazione quando si coglie negli allievi la scintilla della passione e dell’impegno che questi portano con successo nella loro vita quotidiana e professionale.
Il tema della sostenibilità in generale e della sostenibilità ambientale in particolare sono già centrali nelle azioni del nostro Ateneo e parte importante del programma di lavoro del futuro Rettore. Pertanto, non ho dubbi che ci sarà una particolare attenzione al riguardo.

A tale proposito, vorrei anche ricordare il riconoscimento ricevuto di recente dall’Università di Parma con tre “Dipartimenti di eccellenza” selezionati dal MUR. Una conferma per il nostro Dipartimento di Scienze Chimiche, della Vita e della Sostenibilità Ambientale, selezionato per il secondo quinquennio consecutivo, una novità per il Dipartimento di Giurisprudenza, Studî Politici e Internazionali e il Dipartimento di Scienze degli Alimenti e del Farmaco. Tutti e tre i Dipartimenti sono stati selezionati per progetti inerenti il tema della sostenibilità declinata in vario modo e su aspetti molto interessanti, importanti e promettenti: diritto al cibo, sostenibilità e rigenerazione, progettazione e sintesi di nuovi prodotti per salute e benessere di uomo, animali e ambiente. Tutto ciò, oltre che rappresentare motivo di soddisfazione per tutta la comunità accademica, fa davvero ben sperare per consolidare sinergie (o instaurane di nuove) sia all’interno dell’Ateneo che con le Istituzioni locali, nazionali internazionali. A tale proposito ricordo che l’Università di Parma ha da sempre una fortissima vocazione europea che ha recentemente portato al suo pieno coinvolgimento nella Alleanza EU GREEN (The European University alliance for sustainability: responsible GRowth, inclusive Education and ENvironment) che coinvolge 9 Università europee e promuove la condivisione di strategie di didattica e ricerca e la loro sintesi in una strategia condivisa del consorzio.
Concludo con alcune riflessioni sulla terza missione. Da sempre molti di noi sono fortemente impegnati non solo nella produzione di conoscenza ma anche nella sua divulgazione e messa a disposizione della comunità. Crediamo fortemente nel coinvolgimento delle persone (public engagement). Tant’è che alcune azioni in questo ambito realizzate nel nostro Ateneo sono state anche riconosciute a livello Ministeriale come eccellenze. Un aspetto particolarmente interessante è la partecipazione diretta del cittadino al processo scientifico, quella che viene definita tecnicamente “Citizen Science”, una interessante esperienza di scienza partecipata in cui si può contribuire alla acquisizione di conoscenze aiutando i ricercatori di professione. Tutto ciò non solo aiuta ad avvicinare la gente al mondo accademico superando tradizionali barriere che non hanno più motivo di esistere, ma può contribuire significativamente alla familiarizzazione con le metodologie della scienza e ad avvicinare le persone alle tematiche ambientali in modo corretto e consapevole.

Uno dei nostri obiettivi, condiviso tra l’altro da molti dei firmatari dell’appello, è promuovere la cultura della natura e dell’ambiente come fonte di benessere psico-fisico, culturale, spirituale, scientifico ma anche economico e sociale visti i numerosi e straordinari servizi ecosistemici che la natura intatta ci offre senza che noi ce ne rendiamo conto. Fermatevi un attimo ora e pensate, ad esempio, al vostro respiro e a quanto noi dipendiamo da aria, acqua terra, sole, piante, altri animali e microrganismi. Noi siamo natura e non possiamo farne a meno se vogliamo continuare ad esistere come specie su questo meraviglioso pianeta. La biosfera non appartiene all’uomo ma è l’uomo ad appartenerle, ha in più occasioni ribadito il grande biologo E.O. Wilson, sottolineando l’importanza della biofilia e del senso di appartenenza alla natura come ancora di salvezza per tutti noi.

Crediti foto: Chiara Bertogalli

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L’eredità di Mohamed Choukry

di Francesco Dradi

Guarda il video con testimonianze di Giuseppe Doria, Leandro Capraro e Kawtar Choukry

La presenza di Mohamed Choukry è ancora viva. Il segno di chi, strappato bruscamente alla vita, lascia una traccia indelebile nella comunità. Una vita semplice, di chi povero, emigra e lavorando sodo costruisce un presente per sé e la famiglia, svolgendo un ruolo attivo nella comunità, lasciando un’impronta per il futuro.

Lo shock è ancora forte a sei mesi di distanza da quella mattina di sabato 7 gennaio. Non erano ancora le 5.30, in strada Traversetolo, al Botteghino, quando Choukry dopo aver vuotato un bidone si accingeva a salire al posto di guida del camion della raccolta differenziata della carta e, invece, venne centrato in pieno da un automobile che correva troppo.
Lo sgomento ha segnato i colleghi di lavoro della cooperativa sociale Cigno Verde, che svolge il servizio di raccolta rifiuti per conto di Iren. Gli operatori presenti sul posto, che condividevano il turno di lavoro, e poi il caposquadra e il presidente accorsi non poterono che far fronte al dolore per la morte di Mohamed.

A fine mese è fissata la prima udienza del processo per omicidio stradale, ipotesi di reato a carico dell’investitore, un 52enne parmigiano che dopo una nottata di bagordi stava rientrando a casa, con un tasso alcolemico probabilmente troppo alto per guidare. Saranno i giudici a stabilirlo.

Anche Mohamed Choukry era parmigiano, da oltre 30 anni. Tanto che un paio d’estati fa aveva investito tutti i suoi risparmi per acquisire licenza e locali di una gelateria in via Garibaldi, per farne una piccola impresa di famiglia, per dare un lavoro e una stabilità alle tre figlie, Kawtar, Zineb, Khadija. Mentre il figlio Zakaria sta tentando l’avventura nel mondo del calcio, ha 20 anni e delle chance in serie D.

Sul papà si potrebbe scrivere un libro – racconta Kawtar Choukrytante ne ha fatte e passate. Aveva 59 anni. Nacque a Casablanca, a 11 anni morì suo padre, erano undici fratelli e molto poveri. La povertà lo spinse ad emigrare, con un amico, e nel 1987 arrivò a Roma, in treno. Ma lì non aveva contatti, né trovò lavoro. Mangiava alla Caritas e dormiva all’addiaccio, anche sotto i ponti. Quando eravamo piccoli spesso ci raccontava che una volta nevicò, e lui era sotto un ponte. Faceva molto freddo e dormì abbracciato con l’amico, per scaldarsi. Al mattino si risvegliò con un principio di assideramento ai piedi. Dopo un paio d’anni di precarietà decise di salire al nord, scese casualmente a Parma e subito trovò un’offerta di lavoro come manovale. Nel ‘91 fu assunto come muratore e poi divenne camionista. Non c’era la facilità delle comunicazioni di oggi. Quando poteva permetterselo comprava una scheda telefonica e chiamava a casa per pochi minuti. Era fidanzato ma solo nel 1990 poté tornare in Marocco e sposare la mia mamma, Fatima. Nel ’91 sono nata io. E poi Zenib. Solo nel ’94 potemmo trasferirci a Parma per il ricongiungimento. Khadija e Zakaria sono nati qui.
Mio padre era molto legato a Parma, aveva trovato il lavoro, si era stabilito e si sentiva a casa. La trovava una realtà tranquilla dove crescere bene la famiglia. Era divenuto cittadino italiano nel 2008 e noi con lui. Era contento di questo ma sinceramente il sentiero che porta all’integrazione è ancora lungo. Di questo si rammaricava. L’ignoranza è il vero problema, ci diceva e anche noi ne siamo convinte”.

Il tema mancata o difficoltosa integrazione potrebbe occupare un intero capitolo del libro di cui si accennava sopra. Uno degli aspetti che, si può dire, ha lasciato in Mohamed grande rammarico è la questione della moschea. “Era molto attivo nella comunità islamica – dicono Kawtar e Zineb Choukrye il suo impegno in particolare era rivolto ad avere un luogo di culto che ancora non c’è a Parma. Questa mancanza è un segno di malessere per molti di noi. Siamo parte integrante della società, siamo cittadine italiane, qui viviamo, i giovani nascono qui, lavoriamo e paghiamo le tasse. Integrazione non vuol dire essere uguale agli altri, ma accettarsi ognuno per com’è e per come vive, nel rispetto delle diversità di culture”.

E arriviamo alla gelateria, come simbolo di questa integrazione, cercata, voluta di chi ha radici marocchine ma vive e respira italianità. La Mirage l’hanno voluto chiamare, le tre sorelle Choukry, una parola francese che si traduce in “miraggio” ma può assumere anche il significato di “utopia” o, in fondo, di “sogno” da realizzare: “era il sogno diventato nostro, del papà e di noi”.

Ho lavorato come stagionale qui, anni fa, quando si chiamava gelateria Pilotta e mi ero trovata bene – racconta Kawtardopo la pandemia reincontrai la titolare che voleva vendere, ma la cifra che chiedeva era molto alta. Qualche mese dopo ha calato molto il prezzo e proprio in quel periodo il papà aveva ricevuto il Tfr dall’azienda in cui ha lavorato per trent’anni, la Ediltor. A lui piaceva quell’idea, di un’attività di famiglia come una gelateria nel centro della città che sentiva come sua. E così ha investito tutto il Tfr per rilevare la gelateria, nell’agosto del 2021. Le cose sono andate bene e nel novembre scorso abbiamo deciso di rinnovare completamente i locali, per farne una gelateria moderna e più accogliente. Ma senza di lui non ce l’avremmo fatta. Era un bravo muratore e quando finiva il turno in cooperativa si riposava un’ora e poi veniva qua, tutti i giorni per due mesi, fino all’incidente… ha lasciato l’ultimo muro stuccato a metà. Mancava quello e la sostituzione della vetrina, per terminare”.
Tutt’a un tratto la vita si è fermata. – dicono Kawtar e ZinebPapà era il pilastro della famiglia, è sempre stato una sicurezza e una certezza, pensava a tutto lui. E all’improvviso senti che non c’è più. Nei momenti di vera difficoltà ci è stata molto vicina la cooperativa Cigno Verde, dove lavorava papà, una vicinanza concreta e con un’enorme sensibilità”.
Dopo la stagione estiva pensiamo di aprire un’associazione a suo nome, per ricordarne le qualità e per fare opera di sensibilizzazione sulla sicurezza stradale, nelle scuole e non solo. Abbiamo l’intenzione di farlo assieme alla cooperativa e all’associazione vittime della strada”.

Qui sotto foto di vita in famiglia di Mohamed Choukry con la moglie Fatima e i nipotini.

La morte di Choukry è stata causata da un incidente stradale ma poiché stava lavorando si pone immediato anche il tema della sicurezza sul lavoro. “Le indagine delle forze dell’ordine – dice Fabio Faccini, presidente della cooperativa sociale Cigno Verde – hanno appurato che il mezzo era accostato a bordo strada, oltre la linea, quindi in assoluta regolarità e rispetto dei dettami della sicurezza sul lavoro per la raccolta rifiuti. C’erano due mezzi: il primo raccoglieva la carta, ed era seguito a poca distanza dalla squadra della plastica. È una vittima della strada e non un infortunio sul lavoro: è stato scartato il fatto che fosse legato ad inadempienze sul lavoro, né sue, né dell’organizzazione. Tra l’altro ci sono danni anche all’automezzo”.

Choukry – aggiunge Faccini – è sempre stato un elemento di raccordo, era un donatore di sangue Avis, molto attivo nella comunità marocchina e nella comunità islamica ed era riconosciuto per questo. Sul lavoro era sempre molto collaborativo con tutti, tanto che era stato richiesto da altre realtà, dove avrebbe guadagnato di più, ma aveva deciso di rimanere qui.
Nelle immediatezze abbiamo fatto una giornata in cooperativa per ricordarlo, a cui è venuto anche il sindaco Guerra, molto apprezzato. E poi abbiamo attivato una raccolta fondi per sostenere la famiglia. In molti hanno accusato il colpo e per questo abbiamo organizzato degli incontri con gli psicologi di emergenza dell’associazione Sipem SoS Emilia-Romagna, che sono stati bravissimi”.

La cooperativa sociale Cigno Verde annovera 130 addetti di cui 40 per la gestione dei rifiuti. Il luogo di lavoro principale di Choukry era Langhirano con un turno 7-15 ma, di tanto in tanto, faceva turni notturni di raccolta rifiuti in altre zone.

Ci sono state molte riflessioni sulla sicurezza – spiega Leandro Capraro, responsabile delle squadre di raccolta differenziata della Cigno Verde – il nostro è un lavoro particolare, abbastanza pericoloso. Lavoriamo la maggior parte delle ore di notte, col buio. Soprattutto d’inverno al mattino resta buio. I turni sono 20.30 – 02.00 , poi 5.00-13 e un altro turno diurno 7.00-15.00. C’è quindi un problema di sicurezza duplice: da parte nostra occorre sempre l’accortezza di essere in sicurezza, con vestiario giusto, camion con luci di posizione e i lampeggianti sempre funzionanti. Ma da parte degli automobilisti ci vuole più responsabilità. Purtroppo c’è molta disattenzione alla guida: si usa il telefono e si distraggono facilmente. Non parliamo di chi si mette alla guida ubriaco o dopo l’uso di sostanze. E per questo recentemente abbiamo fatto dei corsi di sicurezza esplicitamente sul rischio strada per noi, sia nelle strade di scorrimento, come al Botteghino, sia nelle strade strette del centro. I nostri operatori devono sapere come comportarsi, col rischio che gli incidenti possano essere provocati da altri. Io lavoro nel settore da diversi anni, ma solo adesso debbo dire che quando sento gli operatori la mattina dico sempre “State attenti”.

Mohamed Choukry sul lavoro aveva fatto coppia inseparabile con Giuseppe Doria, (vedi la foto di copertina). Questo il suo ricordo: “Si era costruito un rapporto di amicizia molto stretto, tra me e Mohamed, lavoravamo in squadra da due anni. Quella mattina il camion era messo in sicurezza, fuori dalla carreggiata, la strada era libera, i lampeggianti accesi, noi vestiti con le giubbe arancioni. C’erano pochi bidoni ma era voluto scendere anche lui, gli aveva detto “sono pochi, faccio io”, ma lui era così, non stava fermo. Aveva finito, a me rimaneva da rimetterne uno a posto. Ero voltato, quando ho sentito…
Era una persona sempre allegra, sorridente. La sua ambizione era di sistemare i figli, ha sempre fatto tutto per la famiglia. Dopo la tragedia, abbiamo fatto incontri con gli psicologi e io sono rimasto fermo per un po’, non me la sentivo dato che non ce l’ho più di fianco. Adesso ho ripreso a lavorare. L’altro giorno per la prima volta sono tornato a fare il turno su quella strada… quando siamo arrivati nel punto dell’incidente non ce l’ho fatta e ho pianto”.

 

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Una terra fertile, a rischio

L’agricoltrice Amalia Delsante racconta la storia della sua famiglia, che dagli anni Cinquanta lavora la terra a San Donato – Beneceto e produce il parmigiano-reggiano. Una terra fertile, a rischio di scomparsa.

Liberi dal traffico, per una mattina

Giornata della Terra in viale Maria Luigia

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In viale Maria Luigia gravitano circa 4.000 studenti e 1.000 insegnanti. Ogni mattina si assiste all’assedio del traffico per accedere ai licei Ulivi e Romagnosi e agli istituti tecnici Melloni e Rondani. Senza contare le altre scuole nei paraggi.

Sabato 22 aprile, in occasione della Giornata della Terra, gli istituti scolastici hanno provato a liberarsi dal traffico per una mattina intera, organizzando congiuntamente le assemblee d’istituto con attività di strada a cui hanno collaborato svariate associazioni.
Complice il bel sole e l’aria di primavera è stata una prova riuscita. A dimostrare l’effetto che farebbe se, almeno mezza giornata, si togliessero le automobili private da questo lungoparma che, proprio per la sua posizione, si presta facilmente a essere pedonalizzato e restituire aria buona da respirare a chi lo frequenta.

L’attuale divieto di transito temporaneo, dalle 7.40 alle 8.10, introdotto una decina di anni fa dall’allora assessore all’ambiente e mobilità, Gabriele Folli, è ormai un palliativo tante sono le autorizzazioni in deroga. Coloro che non dispongono del permesso si affrettano ad “entrare” fino all’ultimo secondo utile prima che l’agente della polizia municipale disponga la transenna di divieto. Tanto che il flusso di auto prosegue incessante, a divieto in corso. Come misura tampone probabilmente basterebbe anticipare di mezz’ora la chiusura della strada, per evitare l’assalto di autoveicoli privati.

Se si vuole incidere sulla qualità dell’aria che respirano i ragazzi il ragionamento deve necessariamente portare a un ripensamento complessivo della mobilità. Rolando Cervi, mobility manager di professione nonché, da volontario, presidente del Wwf Parma, assicura che i fondi economici per predisporre un piano sono stati trovati dalle istituzioni (Comune di Parma in primis) e si arriverà per davvero alle “strade scolastiche”. “Il problema è solo di volontà politica” dice Cervi.

E sotto questo aspetto, di pressione sociale verso i politici che amministrano, molto potranno fare gli studenti, in una declinazione concreta dei cortei dei Fridays for future, secondo lo storico adagio ambientalista: “pensare globalmente, agire localmente”.

Di questo sono consapevoli i ragazzi del Green Team – una “squadra” in comune tra le scuole e già l’idea è vincente da sola.
Alessia Boci (3^E liceo classico Romagnosi) e Riccardo Cobianchi (5^ F liceo scientico Ulivi) spiegano come si è arrivati a chiudere la strada al traffico per la Giornata della Terra, con il supporto degli insegnanti, in particolare di Niccolò Vernazza, docente di matematica e fisica dell’Ulivi. Un impegno di due mesi abbondanti, con svariate riunioni in Comune per convincere tecnici e politici della fattibilità di questa prima volta.

Finita la festa rimane, al posto di due stalli di sosta, un parklet rosso fuoco, costato soldi (crowdfunding attivato appositamente con successo), fatica e sudore. “Abbiamo lavorato fino alla sera prima per realizzarlo – dice Cobianchi – all’inizio dovevamo smontarlo subito, finita l’assemblea, ma abbiamo convinto il Comune a prolungare la concessione fino a luglio. Contiamo di utilizzarlo e ampliarlo”. “Ci piacerebbe se la strada venisse chiusa al traffico in modo permanente – confida Boci – ma sappiamo che è impossibile, è una strada di transito e molte sono le corriere che portano qui gli studenti da fuori città. Però se si potesse chiuderla ogni volta che si fanno le assemblee d’istituto (una al mese, ndr) già sarebbe significativo”.

Francesco Dradi

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L’ultimo kebab di Said

di Francesco Dradi

(servizio video correlato)

L’ultimo panino kebab, Said Chabbi, l’ha servito che non era ancora mezzanotte. Poi, come fosse un giorno normale, le pulizie e il riordino del locale, il Carpe Diem in via D’Azeglio. Tirata giù la saracinesca, solo alle 2.47 di notte, nascosto dietro l’anonima dicitura “Avviso di cambio gestione” ha postato su facebook uno struggente messaggio di saluto.
Cogliendo tutti, o quasi, di sorpresa.

Mi sta bollendo il telefono” dice Said quando lo incontro per l’intervista al volo. “Come se fossi un calciatore… Lascio all’apice del successo” scherza per stemperare l’emozione. Un addio è pur sempre un addio.

Said è, era un’istituzione dell’Oltretorrente e di Parma.
Il suo è, era il kebab più buono di Parma. Giusto un giorno fa Parma Today ha messo in fila i 5 migliori locali e Carpe Diem di Said svetta al primo posto, come sottolineato dalla valanga di commenti entusiasti sotto al post nel profilo facebook del giornale.

Il segreto di Said, a parte gli ingredienti sempre di qualità, era di metterci il sorriso e sempre una buona parola con ogni cliente, nessuno escluso. Si mangiava in piedi nel bugigattolo di via D’Azeglio, ma era come accomodarsi a tavola, a casa. Trovavi amici o sconosciuti con cui fare due chiacchiere, Said intratteneva tutti, anche in tre o quattro lingue diverse (italiano, francese, arabo, spagnolo e anche dialetto parmigiano) ed era davvero un melting-pot multiculturale e intergenerazionale, come ce ne sono pochi.
Facendo due rapidi conti, in vent’anni, Said ha sfornato circa 1 milione di panini kebab.

Said è arrivato giovane in Italia, provenendo dall’Algeria. Divenuto cittadino italiano, dopo aver svolto vari lavori, tra cui nel settore panificazione, si era messo in proprio.

Aveva aperto nel 2003 la sua bottega di pizza, kebab, cous cous e falafel. “Carpe Diem” l’aveva voluta chiamare, un motto latino (Afferra il giorno, o cogli l’attimo, traducetelo come preferite) che vuole sottolineare anche adesso che lascia: “È il momento di farlo, la schiena mi dà qualche problema e ho voluto lasciare l’attività in buone mani. Ho trovato due fratelli curdi, che sono bravi, spero la gente li accolga come ha fatto con me”. Said qualche anno fa ebbe un brutto incidente stradale, per fortuna la guarigione è stata completa, ma il fisico presenta il conto e per lui è sempre più faticoso lavorare molte ore sempre in piedi. E si fanno anche altri ragionamenti, dopo vent’anni, c’è voglia di qualcosa di altro. “Mi sono già arrivate offerte di lavoro, ma adesso pausa per un po’, voglio godermi la mia famiglia, i figli che stanno diventando grandi e tra poco prenderanno le loro strade”.

Si schermisce, deve accompagnare una persona che ha difficoltà lavorative in un ufficio pubblico, per vagliare dei documenti. Perché sottotraccia, e non vuole che si dica, Said è anche questo, un punto di riferimento per l’integrazione di tanti maghrebini e non solo. “Aiutiamo gli amici, che Dio ti aiuta”, mi saluta così.
Carpe Diem.

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