Da Parma a Lampedusa per salvare vite in mare
L’esperienza della giovane medica
Elena Cremonesi con Mediterranea
La guardi questa ragazzona dai capelli rossi ginger mentre – nella sua felpa d’ordinanza blu con la scritta Mediterranea cerchiata da un salvagente, in pantaloni scuri e sneakers no logo – tiene incollata alle sedie, per tre quarti d’ora filati, la piccola folla venuta ad ascoltarla a Lostello in Cittadella.
È un attimo immaginarla e immedesimarsi in Elena Cremonesi quando esordisce dicendo che non era mai salita su una barca a vela e ha sofferto il mal di mare praticamente tutti i giorni. Intimorita, per via della nota sindrome dell’impostore e però con una missione da compiere: gli inconvenienti si superano e si sta ritti sulla tolda.
Sì, perché il 5 aprile scorso a Lampedusa, Elena è salita a bordo della Safira, barca a vela della Ong Mediterranea e in dieci giorni di navigazione ha contribuito a salvare 79 vite umane.

E qui è il momento di tirare il fiato e le fila del discorso.
Cominciamo dal fatto che Elena Cremonesi, 29 anni, specializzanda al terzo anno in medicina interna presso l’Ospedale Maggiore di Parma, non sembra proprio una medica. Questo l’avete già capito.
E il secondo fatto è che un mese fa era a svolgere la sua professione in mezzo al Mediterraneo, in quel tratto di mare tra Africa ed Europa, nel quadrilatero d’acqua salata tra Libia-Tunisia-Malta-Italia, per soccorrere i migranti che alla disperata, sui barconi, tentano di raggiungere le coste italiane per una salvezza e una vita migliore e, in tanti casi, l’unica vita possibile. E per questo così disposti ad affrontare il pericolo di morire.
Due salvataggi ha operato la Safira, nella missione #21 di Mediterranea, con a bordo Elena Cremonesi. Il primo, come leggerete, salvifico sul serio, scongiurando per poche ore un’ennesima tragedia. Il secondo intervento si è rivelato un appoggio fondamentale per condurre in porto un’altra barca.
Una lettura dei fatti che dovrebbe rendere orgogliosa tutta Parma di avere qui (dove ha studiato, si è laureata, è cresciuta) una giovane medica che non esita ad andare in prima linea per mettere le sue competenze a servizio delle sofferenze di quei popoli che hanno meno risorse e più bisogno di sanità, rinverdendo una tradizione di aiuti e interventi negli ospedali dei Paesi del sud del mondo, che si dipana negli anni, talvolta in situazioni di guerra, sotto spari e bombe (ne citiamo tre, senza far torto a nessuno degli altri medici che nel tempo si sono spesi, ed estendendo il riconoscimento a infermieri ed equipe mediche: il chirurgo Sandro Contini, il chirurgo pediatra Carmine Del Rossi, il cardiologo Franco Masini).
C’è forse una differenza: Elena Cremonesi ha lavorato in mare aperto, affrontando situazioni senza preavviso, davvero sul confine tra la vita e la morte.

Questo il suo racconto.
“Sono originaria dell’hinterland di Milano ho studiato a Parma perché mi piaceva il modo di lavorare che si ha in Emilia-Romagna, per cui ho scelto poi di intraprendere la carriera medica qua. Sono una specializzanda di medicina interna al terzo anno di specializzazione e fin dal tempo dell’Università molto interessata alla parte “diritti umani” e alla parte “medicina delle migrazioni”. Tant’è che frequento come volontaria lo Spazio Salute immigrati a Parma in strada 22 luglio. E il Centro salute della famiglia straniera di Reggio Emilia. Il mio progetto per la vita è proprio quello di dedicarmi come professione alla medicina delle migrazioni. Il paziente non europeo ha alla base un background culturale differente, per cui c’è una visione differente del dolore e della malattia, di come assumere i farmaci. Si tratta di non avere una visione solo occidentale: diciamo che l’obiettivo della medicina delle migrazioni è che non ci sia una medicina delle migrazioni, ma che tutto diventi poi una medicina con uno sguardo globale attento al paziente”.
“Mediterranea l’ho sempre seguita, sui social, attraverso le newsletter cui ero iscritta, anche perché incarnava per me l’essenza di quelli che erano i miei ideali di studentessa all’inizio e poi di medico. Dopodiché ho scoperto nel 2022 che c’era appunto un equipaggio di terra (EdT) di Mediterranea a Parma, creato da Fabio Amadei. E allora non ho esitato un secondo e ne sono entrata a far parte. Da lì è stato un viaggio, una scalata con un panorama bellissimo, nel senso che da lì poi sono entrata a far parte del gruppo medico di Mediterranea e quindi ho incominciato a fare l’attivismo sia laico, nel nostro EdT di Parma, sia come medica nel gruppo sanitario. Sono partita per le prime missioni, sono stata in Ucraina mentre l’anno scorso ero stata a Oulx, sulla frontiera italo-francese, con un’altra Ong. E quest’anno dovrei tornare in Ucraina e poi insomma c’è stato questo…”

“Siamo partiti da Milano il 3 aprile. Il 5 siamo salpati e siamo rientrati il 15 aprile, quindi siamo stati in giro alla fine un paio di settimane più o meno, ecco. Era la prima volta in mare, e sì, è stato un battesimo di fuoco. Di missioni ne ho fatte varie, mi occupo di migrazioni da un po’ di anni e però all’inizio avevo un sacco di preoccupazioni. Ho detto chissà se sarò adeguata, chissà se sarò capace, chissà se… Insomma è una situazione oggettivamente, fisicamente e psicologicamente molto impattante. Ed ero anche preoccupata proprio a livello medico, nel senso che insomma io sono all’inizio, il mio collega medico sulla Safira invece è superstrutturato, un sacco di esperienze con tantissime Ong e ho detto: oddio, saprò cavarmela? Però poi il punto è che quando sei lì, gioca tantissimo l’adrenalina e soprattutto la motivazione per cui ci sei, perché se tu ti ripeti ogni giorno: queste persone non hanno, non avrebbero una speranza se noi non fossimo qua, anche un passo verso la loro salvezza è già tantissimo per loro, rispetto comunque a quello che si potrebbe pensare. Devi saperti dire “io sto facendo il mio lavoro e siamo qua in un team” e in questo modo si riesce a gestire il carico emotivo che si ha in questo tipo di missione”.
“Certo, una volta che è finito viene fuori tutta la sensibilità che ti è rimasta dentro e che magari in quel momento non hai potuto esternare perché era una situazione di emergenza, e dopo devi mettere insieme i pezzettini”.
“Mediterranea è un’associazione di promozione sociale fondata nel 2018 da persone che hanno deciso che non era più il caso di stare a guardare chi continuava ogni giorno a morire in mare, cercando di lasciare la propria terra, per qualsiasi tipo di ragione. E così con la nave Mare Ionio sono partite le prime missioni. Gli ostacoli che frappongono i governi sono noti. Però diciamo che siamo ancora qua, alla missione in mare numero 21, per cui direi che il nostro sogno lo stiamo portando avanti e anche molto bene, date le circostanze. È sorto un gruppo in Spagna e poi si sono attivati equipaggi di terra per intervenire a Trieste sulle rotte balcaniche e in Ucraina a supporto della popolazione sofferente per la guerra.
“Ora la mare Ionio è ferma per manutenzione, così siamo usciti con la Safira, una barca a vela che quindi ha caratteristiche molto diverse”.

“Per partire dalla mia esperienza ho portato una cosa. Questa che vedete (in foto ndr) che sembra la carta dell’uovo di Pasqua in realtà è una metallina ed è il simbolo di quello che si fa nel Mediterraneo. La metallina serve per avvolgere le persone di tutte le età perché è molto grande. Serve per avvolgere adulti, ragazzi, bambini, neonati, tutti quanti. È fatta di due colori, sembra solo carta, ma in realtà quando la metti addosso scalda tantissimo e lo dico perché l’abbiamo provata anche noi, effettivamente ci ha salvato in varie situazioni di gelo nel Mediterraneo, quando cala la notte. C’è questa parte in oro che viene messa all’esterno quando ci sono le vittime di assideramento: attira i raggi del sole, e le persone rimangono al caldo. La parte argento si rivolge all’esterno quando le persone sono ustionate e quindi non devono disperdere il calore, ma è importante che il calore venga mantenuto all’interno del corpo per mantenere le funzioni vitali. Questa metallina, questo semplice foglio che sembra carta ha salvato la vita a tantissime persone nella missione che ho fatto io, come era avvenuto in precedenza. Sembra una sciocchezza, ma in realtà il fatto di poter stare al caldo, non è purtroppo scontato per persone che viaggiano per più giorni nel Mediterraneo. E quindi, avere una di queste addosso ha salvato letteralmente la vita, soprattutto ai bambini e ai neonati”.
“Sulla Safira l’equipaggio era composto da due medici e altre sei persone, gli skipper e i rib driver che guidavano i gommoni di salvataggio e il capo missione.

Siamo partiti la sera tardi e nella notte, alle 2, abbiamo ricevuto subito la prima segnalazione da Frontex. Ci danno le coordinate, le mettiamo sul nostro radar e andiamo, un po’ lenti perché siamo una barca a vela. Siamo avvisati che è un gommone con sessanta persone tra cui donne in gravidanza e bambini, anche neonati. E io mi precipito a ripassare i volumi di tutta la facoltà di medicina. Ma cosa succede? Quando stavamo per arrivare vicino al nostro target vediamo una barca in vetroresina, visibilmente instabile, con a bordo persone che chiedevano aiuto. Nel frattempo era diventata mattina. Abbiamo fermato i motori e la cosa assurda era che non c’era nessun “may day” relativo a questa barca, nessuna segnalazione da Frontex, nessun allarme. Era una barca fantasma. Queste persone ci hanno raccontato che erano in mare da 52 ore, in condizioni cliniche precarie. Per salvarli va il rib (gommone semirigido) per informarli che siamo lì per soccorrerli, viene dato loro il giubbotto di salvataggio e, verificato se ci siano delle persone in arresto cardiaco o bisognose di terapie di emergenza. In questo caso non c’era bisogno e si è effettuato il trasbordo sulla Safira per le cure in modo un po’ meno adrenalinico, perché comunque diciamo che sono pazienti che hanno bisogno di cure mediche urgenti, ma non in emergenza. Quando hai finito ti viene da piangere, ti dici che non è possibile, queste persone in mare avevano perso ogni speranza e in quel momento abbiamo fatto proprio la differenza tra la morte e la vita. E non è una cosa che rimane tra di noi, ma ti chiedi che cavolo ha in testa la gente che li lascia lì, è quella la vera domanda che ci dobbiamo fare, è quello il problema.”
“Le cose più frequenti che si vedono sono ipotensioni, quindi svenimenti perché passano seduti, schiacciati, tante ore, e quando si alzano svengono, specialmente i bambini, quindi servono soluzioni fisiologiche, e anche farmaci in vena. La patologia più frequente sono le ustioni, derivanti da fuoriuscite di carburante da serbatoi inadeguati. I vestiti si appiccicano alla pelle, e quindi con tutta la calma e l’amore che si può avere in quelle situazioni con l’acqua pian piano si staccano per praticare le cure”.
“Nella prima uscita abbiamo salvato 28 persone, tutti maschi, la maggior parte minori non accompagnati del Sud Sudan e della Nigeria. Avevano ipotecato tutto per essere lì, in quanto perseguitati in patria. Uno era un ingegnere, parlava inglese e ci ha raccontato che aveva pagato l’equivalente di 6mila euro, obbligato per questo percorso di salvezza. Gli abbiamo detto: ma non avevi timore, il rischio di morire è molto alto. “Sì, ci ha risposto, ma “il bello” in queste acque è che in tre minuti perdi i sensi e non te ne accorgi di andartene”. Sono cose che ti rimangono e ti segnano dentro”.

“Siamo ritornati in porto a Lampedusa alle 2 del mattino. Dopo un giorno di riposo siamo ripartiti per una missione che si è rivelata molto impegnativa. Ci siamo diretti verso la Tunisia, ma per lungo tempo non abbiamo avuto segnalazioni, né si vedeva niente. Fino a che il capo-missione vede sul radar un velivolo che fa dei cerchi continuamente in mezzo al mare, una cosa un po’ strana. Però non c’era nessuna segnalazione né dalla guardia costiera né da Frontex, niente, zero, silenzio. Data l’esperienza pregressa dell’equipaggio abbiamo deciso di “andare a vedere”. Dunque giriamo la barca, mettiamo le coordinate e ci dirigiamo subito verso quel punto; arrivati a quattro miglia, a tre miglia, incominciamo a scorgere un pallino nero in lontananza, col binocolo. È una barca, poi più ti avvicini vedi le manine che si muovono, vedi la gente che alza i bambini per farti vedere che ci sono dei bambini a bordo, insomma vedi una serie di cose. Noi ci avviciniamo sempre di più, pensavamo di essere da soli, perché ci siamo detti vabbè, qua nessuno li ha visti, magari loro non hanno neanche mandato un may day… Sono proprio dispersi alla deriva, sicuramente, perché non si muovono. E invece, senza che ci fosse arrivata alcuna segnalazione radio, vediamo comparire dal niente una grande nave bianca, della Guardia costiera. Ci è venuto il timore che fosse la guardia libica che volesse riportarli indietro, perché hanno le stesse navi italiane, dato che lo Stato italiano le ha fornite alla Libia, negli accordi che sappiamo. Grazie a Dio invece era la Guardia costiera italiana, che è intervenuta, ha fatto il trasbordo di 50 persone, donne, bambini e si sono diretti a Lampedusa più velocemente di quanto avremmo fatto noi. Il nostro capo-missione ha chiesto “ma, scusate, se eravate vicini, perché non siete intervenuti prima, perché non avete detto niente?”. C’era un concreto rischio di naufragio per quel barcone alla deriva. Non abbiamo ricevuto risposta e questo ci spinge a delle riflessioni, che lasciamo aperte. Insomma, per fortuna che siamo intervenuti”.
Elena Cremonesi, segnatevi questo nome, ne sentiremo parlare.
Francesco Dradi