L’accordo commerciale USA-UE rischia di avere pesanti conseguenze per le imprese europee, in particolare dei settori che più esportano verso gli USA come l’agroalimentare italiano. La Food Valley di Parma sarà tra questi anche perché, contrariamente a quello che racconta il ministro Lollobrigida, non è possibile produrre prosciutti di Parma e Parmigiano Reggiano negli Stati Uniti per evitare il dazio previsto del 15%. I termini precisi dell’accordo non sono ancora noti e legalmente vincolanti, ma dalla vicenda si possono già trarre alcune considerazioni, purtroppo negative per l’immagine e l’economia dell’Unione Europea.
1. IL LUOGO
Il principio della capitolazione è il luogo scelto per annunciare l’accordo: un resort per il golf di proprietà di Trump in Scozia. La Von der Leyen invece di ricevere Trump in una sede istituzionale è corsa alla corte privata del re. E dai resoconti dei giornalisti presenti, pare abbia anche fatto parecchia anticamera: Trump doveva finire la partita di golf con suo figlio. Una umiliazione senza precedenti per chi rappresenta 448 milioni di cittadini europei.
Questo segno di subordinazione clamoroso è il riflesso della mancanza di peso, statura e sensibilità politica della presidente della Commissione. D’altronde la Von der Leyen è una che in tutta la sua vita non si è mai misurata con il voto dei cittadini e non ha mai ricoperto una carica elettiva, facendo carriera solo dentro il suo partito. Un politico vero, con un po’ di schiena dritta e con la consapevolezza dei cittadini che rappresenta, non si sarebbe mai prestato ad un simile atto di sottomissione. Quanto meno a livello di immagine esterna.
2. LE PAROLE
Nella conferenza stampa tenutasi nella sala da ballo del resort ha parlato praticamente solo Trump che, oltre a celebrare la magnificenza della sua sala e ad annunciare i termini dell’ “accordo”, si è prodotto nel solito profluvio di sparate e di falsità attaccando, con gli argomenti tipici dei negazionisti climatici, gli impianti eolici, e quindi le politiche della UE tese all’autonomia energetica, e affermando che gli Stati Uniti sono i soli fornitori di aiuti umanitari per Gaza, quando sono prima di tutto i fornitori di armi e fondi per Israele.
La Von der Leyen, come di consueto, non ha battuto ciglio e proferito motto, anche solo per sommessamente rimarcare che è la UE uno dei principali fornitori di aiuti per i palestinesi e che è meglio produrre energia pulita dal vento sul proprio territorio piuttosto che estrarre e bruciare combustibili fossili che dobbiamo importare e che sono alla base della crisi climatica. Ma il sovrano non andava disturbato, anche perché uno dei termini del contratto capestro riguarda proprio l’energia.
Quello che Von der Leyen ha detto è che l’accordo commerciale creava certezza in tempi incerti e garantiva stabilità e prevedibilità per gli investitori di entrambe le parti, celebrando con i numeri la dimensione delle due economie, come se prima non vi fossero accordi commerciali e non fossero ben più favorevoli per le aziende e per i consumatori di quello attuale.
Ha poi detto che questo era il secondo blocco costitutivo (building block) che riaffermava e rafforzava il partenariato transatlantico, facendo esplicito riferimento all’altra capitolazione sul 5% per le spese militari già concessa dall’altro cortigiano Rutte per conto degli stati europei della NATO.
Si è spinta perfino a dire che l’accordo riequilibrava le relazioni commerciali tra USA e UE, avvallando quindi la narrativa di Trump, quando è notorio che, se si considerano i servizi e non solo i beni, gli scambi grosso modo si compensano.
Ora è del tutto evidente che le parole della Von der Leyen su certezza e stabilità lasciano il tempo che trovano. Il creatore dell’incertezza è proprio Trump e l’accordo annunciato non garantisce in alcun modo che il presidente americano possa di nuovo rovesciare il tavolo e alzare la posta nel momento in cui venissero toccati altri interessi americani o venisse semplicemente offeso il suo narcisismo. Al contrario, la capitolazione apre la strada a nuove estorsioni. La debolezza con i bulli e i prepotenti non paga mai.
3. L’ACCORDO
La prima cosa da sottolineare è che nessuno ha ancora visto l’accordo scritto e che, per alcune delle misure annunciate, la Commissione Europea si è già affrettata a dire che non sono giuridicamente vincolanti (come se a Trump importasse qualcosa del giuridicamente vincolante o delle regole del commercio internazionale). Si deve quindi stare a quanto uscito dall’incontro e raccolto dai vari media specializzati nei corridoi della CE.
Dazi: ci vuole molta faccia tosta da parte della VdL per presentare come un successo dei dazi unilaterali al 15% su gran parte dei prodotti europei, se si tiene conto che gli scambi commerciali in essere erano praticamente esenti per entrambe le parti (media inferiore all’1,5%) e che, fino a qualche settimana fa, la Commissione lavorava per un dazio reciproco del 10%, come quello ottenuto dal Regno Unito.
Alcuni prodotti come quelli dell’aeronautica, farmaci, semiconduttori, materie prime critiche dovrebbero essere esentati. Per altri, come l’agroalimentare che interessa particolarmente l’Italia, si è in attesa di veder la lista dei prodotti non sensibili che potrebbero rientrare nell’esenzione. Tra questi non ci sarà il vino. Su acciaio e alluminio rimarranno invece i dazi al 50% imposti da Trump a tutti i paesi
Energia: la CE si sarebbe impegnata ad importare gas naturale liquido, petrolio e combustibile nucleare per un importo di 750 miliardi di dollari in tre anni, a prezzi non definiti, triplicando in pratica le attuali importazioni dagli USA. Secondo VdL questo aiuterebbe la UE ad affrancarsi dalle importazioni di gas e petrolio russo, che però sono già ai minimi: nel 2024 sono ammontate a 23 miliardi di euro, dieci volte meno di quanto si vuole importare dagli USA. C’è poi un problema attuativo: gli acquisti di gas e petrolio vengono fatti dalle compagnie energetiche e non dalla Commissione. Chi le convince a triplicare gli acquisti a prezzi fuori mercato?
Investimenti: è stato annunciato che le aziende europee investiranno ulteriori 600 miliardi di euro negli Stati Uniti. Questo porterebbe crescita di impieghi e trasferimento di ricchezza sul suolo americano a detrimento dell’occupazione e degli enormi investimenti necessari in Europa per mantenere impieghi e competitività. Un fabbisogno che Draghi, nel suo rapporto, ha stimato in 800 miliardi di euro all’anno. Parrebbe una pessima notizia per la UE, ma anche in questo caso saranno le aziende a decidere se farlo. La Commissione non ha nessuno strumento per attuare questa misura
4. I MANDANTI
La Von der Leyen, si è visto, non ha alcuna autonomia e visione politica propria. E’ una mera esecutrice, brava come manager e nell’accentrare il potere e i centri decisionali della Commissione su di sé. I mandanti politici di questo brutto accordo sono soprattutto i governi della Germania e dell’Italia, i due principali paesi esportatori verso gli Stati Uniti che, per ragioni non solo economiche ed industriali, vogliono a tutti i costi ammansire l’estorsore ed evitare una guerra commerciale.
La Germania del governo Merz tratta ormai la Commissione Europea come un’agenzia a servizio degli interessi tedeschi, in particolare dell’industria automobilistica e manifatturiera in crisi di competitività rispetto alla Cina che ha saputo scommettere e vincere nella partita della green economy (e qui bisognerebbe aprire una lunga parentesi sul green deal nato come politica industriale proprio per contrastare questa concorrenza, arrivato troppo tardi e senza adeguate risorse e poi affossato sull’onda politica della destra fossile). Anche il Parlamento Europeo è nelle mani del PPE a guida tedesca, con il suo presidente Manfred Weber che gioca di sponda con i gruppi politici sovranisti e di estrema destra.
Poi c’è l’Italia con la Meloni che più che essere il ponte e il canale privilegiato con Trump (si è visto quale influenza ha) è soprattutto il ponte per costruire la prossima maggioranza al Parlamento Europeo tra PPE e la destra, sul modello dello stesso governo italiano, con in testa un disegno di una UE non più federale, ma intergovernativa a completo servizio degli Stati.
Che l’accordo capestro siglato con Trump tuteli poi davvero l’industria automobilistica tedesca e quella agroalimentare italiana resta tutto da vedere. Ma nella narrazione interna possono raccontare di avere evitato guai peggiori, stabilizzato le relazioni e rafforzato l’alleanza transatlantica. A spese dell’autorevolezza e della credibilità della UE.
5. CHI PERDE E CHI VINCE
L’unico vincitore di questa partita pare essere il narcisismo e l’ego ipertrofico di Trump. Mentre a perdere sono un po’ tutti, alcuni più di altri. I conti si potranno fare meglio quando saranno noti e definiti i termini dell’accordo, ma a pagare saranno soprattutto le aziende europee e i consumatori di entrambe le sponde dell’Atlantico, compresi gli elettori MAGA.
A perdere è sicuramente l’Unione Europea in quanto tale come soggetto politico coeso e autonomo in grado di fare valere sul piano internazionale la propria forza economica e i propri principi. Il Canada, ben più piccolo della UE, non si è piegato alle minacce e ai ricatti dell’estorsore e non ha avuto paura di applicare contromisure commerciali. Più di tutti, perde la presidente della Commissione Europea Von der Leyen che dimostra tutta la sua inadeguatezza politica a rappresentare 450 milioni di cittadini europei.
COSA SUCCEDE ORA?
In linea generale, in base ai trattati, gli accordi commerciali con i paesi terzi negoziati dalla Commissione Europea su mandato e per conto degli Stati membri devono essere approvati a maggioranza qualificata dal Consiglio UE e votati anche dal Parlamento Europeo. Non è però ancora chiaro a quale base giuridica la Commissione farà riferimento per questo accordo e quindi quale procedura di adozione sarà seguita. Il modus operandi della Von der Leyen 2 è di accentrare tutto, da brava esecutrice degli Stati e in particolare del suo, riducendo al minimo il confronto e i passaggi in Parlamento. Per ora siamo nel limbo delle dichiarazioni. C’è da augurarsi che le forze progressiste del Parlamento Europeo, su questo come sulla pessima proposta di bilancio pluriennale 2028-2034 presentata dalla stessa VdL, abbiano un sussulto d’orgoglio e facciano sentire la loro voce votando contro.
Nicola Dall’Olio