L’umile lavoro di cronista

Alla sedicesima newsletter è tempo di tirare il fiato e guardare indietro il percorso fatto e, in avanti, alle prospettive.

Se c’è una cosa che non mi riesce bene, care lettrici e cari lettori, è lo scrivere editoriali che diano la linea, che esprimano una visione. Onestamente mi ritrovo di più nell’umile lavoro di cronista che scava per cercare notizie: a volte fa dei buchi nell’acqua, a volte trova dei tesori o, perlomeno, dei tesoretti.

Siamo partiti con tre obiettivi: informare su quello che succede in città (e in provincia), laddove altri non lo fanno; dare voce a chi di solito non appare sui media; costruire una community di lettrici e lettori che sostengano questa avventura editoriale no-profit.

Lo abbiamo fatto sperimentando due modalità: una trasmissione video podcast live; una newsletter settimanale. Sotto, sotto la vera scommessa era riuscire a mantenere continuità nelle uscite e non disertare l’appuntamento con lettrici e lettori. Ci siamo riusciti ed è un traguardo che non era scontato, perché l’attività di informazione che facciamo con Parma Parallela non è un lavoro ma – utilizzando un termine di altri tempi oggi desueto – una militanza. È tempo extra quello che dedichiamo a questa testata blog per affermarla nel panorama dell’informazione locale.

Parlo al plurale perché tengo a ringraziare, e molto, Rolando e Chiara, punti di riferimento di questa esperienza.

Viviamo tempi difficili per la democrazia, nel mondo. Quando prende il sopravvento la legge del più forte si riduce lo spazio per il dialogo, per il confronto delle idee, si enfatizzano le paure, si crea un clima permanente di conflitto, si comprime la libertà. Una delle conseguenze è il moltiplicarsi della propaganda a scapito delle fonti di informazione per i cittadini.

A Parma, paradossalmente, viviamo questa contrazione dell’informazione in un contesto di benessere – sempre più scricchiolante in verità – e di liberalità. E non bastano, e non possono bastare, i profili social personali, per quanto brillanti, a sopperire a questo vulnus.

“Questa città ha bisogno di parlare e di parlarsi. Il vostro tentativo è molto apprezzabile, ma dovreste sforzarvi di aprirvi di più”. Un collega giornalista di lungo corso mi diceva così, qualche giorno fa. È un pungolo, un incentivo a fare meglio.

Lasciatemi però dire, con una punta di orgoglio, che in questi quattro mesi su alcuni temi abbiamo dato notizie che non avreste trovato altrove, e fornito diversi spunti di dibattito. Nelle live video (che potete recuperare sul canale youtube) abbiamo ospitato in larga parte donne e giovani che hanno tanto da raccontare e che, di converso, solitamente sono esclusi dagli spazi mediatici.

Ci sono tanti aspetti da migliorare. Uno di questi, decisamente, è una maggior diffusione di Parma Parallela. Ne siamo consapevoli e abbiamo qualche idea in proposito, che cercheremo di mettere in pratica, un passo alla volta.

Devo però chiedere, apertamente, un sostegno all’avventura di Parma Parallela. Dateci linfa, abbonatevi al progetto, qui trovate le indicazioni per sostenerci.

Torniamo a settembre, trascorrete buone vacanze.

Francesco Dradi

Dazi al 15%. Una capitolazione in cinque atti


L’accordo commerciale USA-UE rischia di avere pesanti conseguenze per le imprese europee, in particolare dei settori che più esportano verso gli USA come l’agroalimentare italiano. La Food Valley di Parma sarà tra questi anche perché, contrariamente a quello che racconta il ministro Lollobrigida, non è possibile produrre prosciutti di Parma e Parmigiano Reggiano negli Stati Uniti per evitare il dazio previsto del 15%. I termini precisi dell’accordo non sono ancora noti e legalmente vincolanti, ma dalla vicenda si possono già trarre alcune considerazioni, purtroppo negative per l’immagine e l’economia dell’Unione Europea.

1. IL LUOGO

Il principio della capitolazione è il luogo scelto per annunciare l’accordo: un resort per il golf di proprietà di Trump in Scozia. La Von der Leyen invece di ricevere Trump in una sede istituzionale è corsa alla corte privata del re. E dai resoconti dei giornalisti presenti, pare abbia anche fatto parecchia anticamera: Trump doveva finire la partita di golf con suo figlio. Una umiliazione senza precedenti per chi rappresenta 448 milioni di cittadini europei.

Questo segno di subordinazione clamoroso è il riflesso della mancanza di peso, statura e sensibilità politica della presidente della Commissione. D’altronde la Von der Leyen è una che in tutta la sua vita non si è mai misurata con il voto dei cittadini e non ha mai ricoperto una carica elettiva, facendo carriera solo dentro il suo partito. Un politico vero, con un po’ di schiena dritta e con la consapevolezza dei cittadini che rappresenta, non si sarebbe mai prestato ad un simile atto di sottomissione. Quanto meno a livello di immagine esterna.

2. LE PAROLE

Nella conferenza stampa tenutasi nella sala da ballo del resort ha parlato praticamente solo Trump che, oltre a celebrare la magnificenza della sua sala e ad annunciare i termini dell’ “accordo”, si è prodotto nel solito profluvio di sparate e di falsità attaccando, con gli argomenti tipici dei negazionisti climatici, gli impianti eolici, e quindi le politiche della UE tese all’autonomia energetica, e affermando che gli Stati Uniti sono i soli fornitori di aiuti umanitari per Gaza, quando sono prima di tutto i fornitori di armi e fondi per Israele.

La Von der Leyen, come di consueto, non ha battuto ciglio e proferito motto, anche solo per sommessamente rimarcare che è la UE uno dei principali fornitori di aiuti per i palestinesi e che è meglio produrre energia pulita dal vento sul proprio territorio piuttosto che estrarre e bruciare combustibili fossili che dobbiamo importare e che sono alla base della crisi climatica. Ma il sovrano non andava disturbato, anche perché uno dei termini del contratto capestro riguarda proprio l’energia.

Quello che Von der Leyen ha detto è che l’accordo commerciale creava certezza in tempi incerti e garantiva stabilità e prevedibilità per gli investitori di entrambe le parti, celebrando con i numeri la dimensione delle due economie, come se prima non vi fossero accordi commerciali e non fossero ben più favorevoli per le aziende e per i consumatori di quello attuale.

Ha poi detto che questo era il secondo blocco costitutivo (building block) che riaffermava e rafforzava il partenariato transatlantico, facendo esplicito riferimento all’altra capitolazione sul 5% per le spese militari già concessa dall’altro cortigiano Rutte per conto degli stati europei della NATO.

Si è spinta perfino a dire che l’accordo riequilibrava le relazioni commerciali tra USA e UE, avvallando quindi la narrativa di Trump, quando è notorio che, se si considerano i servizi e non solo i beni, gli scambi grosso modo si compensano.

Ora è del tutto evidente che le parole della Von der Leyen su certezza e stabilità lasciano il tempo che trovano. Il creatore dell’incertezza è proprio Trump e l’accordo annunciato non garantisce in alcun modo che il presidente americano possa di nuovo rovesciare il tavolo e alzare la posta nel momento in cui venissero toccati altri interessi americani o venisse semplicemente offeso il suo narcisismo. Al contrario, la capitolazione apre la strada a nuove estorsioni. La debolezza con i bulli e i prepotenti non paga mai.

3. L’ACCORDO

La prima cosa da sottolineare è che nessuno ha ancora visto l’accordo scritto e che, per alcune delle misure annunciate, la Commissione Europea si è già affrettata a dire che non sono giuridicamente vincolanti (come se a Trump importasse qualcosa del giuridicamente vincolante o delle regole del commercio internazionale). Si deve quindi stare a quanto uscito dall’incontro e raccolto dai vari media specializzati nei corridoi della CE.

Dazi: ci vuole molta faccia tosta da parte della VdL per presentare come un successo dei dazi unilaterali al 15% su gran parte dei prodotti europei, se si tiene conto che gli scambi commerciali in essere erano praticamente esenti per entrambe le parti (media inferiore all’1,5%) e che, fino a qualche settimana fa, la Commissione lavorava per un dazio reciproco del 10%, come quello ottenuto dal Regno Unito.

Alcuni prodotti come quelli dell’aeronautica, farmaci, semiconduttori, materie prime critiche dovrebbero essere esentati. Per altri, come l’agroalimentare che interessa particolarmente l’Italia, si è in attesa di veder la lista dei prodotti non sensibili che potrebbero rientrare nell’esenzione. Tra questi non ci sarà il vino. Su acciaio e alluminio rimarranno invece i dazi al 50% imposti da Trump a tutti i paesi

Energia: la CE si sarebbe impegnata ad importare gas naturale liquido, petrolio e combustibile nucleare per un importo di 750 miliardi di dollari in tre anni, a prezzi non definiti, triplicando in pratica le attuali importazioni dagli USA. Secondo VdL questo aiuterebbe la UE ad affrancarsi dalle importazioni di gas e petrolio russo, che però sono già ai minimi: nel 2024 sono ammontate a 23 miliardi di euro, dieci volte meno di quanto si vuole importare dagli USA. C’è poi un problema attuativo: gli acquisti di gas e petrolio vengono fatti dalle compagnie energetiche e non dalla Commissione. Chi le convince a triplicare gli acquisti a prezzi fuori mercato?

Investimenti: è stato annunciato che le aziende europee investiranno ulteriori 600 miliardi di euro negli Stati Uniti. Questo porterebbe crescita di impieghi e trasferimento di ricchezza sul suolo americano a detrimento dell’occupazione e degli enormi investimenti necessari in Europa per mantenere impieghi e competitività. Un fabbisogno che Draghi, nel suo rapporto, ha stimato in 800 miliardi di euro all’anno. Parrebbe una pessima notizia per la UE, ma anche in questo caso saranno le aziende a decidere se farlo. La Commissione non ha nessuno strumento per attuare questa misura

4. I MANDANTI

La Von der Leyen, si è visto, non ha alcuna autonomia e visione politica propria. E’ una mera esecutrice, brava come manager e nell’accentrare il potere e i centri decisionali della Commissione su di sé. I mandanti politici di questo brutto accordo sono soprattutto i governi della Germania e dell’Italia, i due principali paesi esportatori verso gli Stati Uniti che, per ragioni non solo economiche ed industriali, vogliono a tutti i costi ammansire l’estorsore ed evitare una guerra commerciale.

La Germania del governo Merz tratta ormai la Commissione Europea come un’agenzia a servizio degli interessi tedeschi, in particolare dell’industria automobilistica e manifatturiera in crisi di competitività rispetto alla Cina che ha saputo scommettere e vincere nella partita della green economy (e qui bisognerebbe aprire una lunga parentesi sul green deal nato come politica industriale proprio per contrastare questa concorrenza, arrivato troppo tardi e senza adeguate risorse e poi affossato sull’onda politica della destra fossile). Anche il Parlamento Europeo è nelle mani del PPE a guida tedesca, con il suo presidente Manfred Weber che gioca di sponda con i gruppi politici sovranisti e di estrema destra.

Poi c’è l’Italia con la Meloni che più che essere il ponte e il canale privilegiato con Trump (si è visto quale influenza ha) è soprattutto il ponte per costruire la prossima maggioranza al Parlamento Europeo tra PPE e la destra, sul modello dello stesso governo italiano, con in testa un disegno di una UE non più federale, ma intergovernativa a completo servizio degli Stati.

Che l’accordo capestro siglato con Trump tuteli poi davvero l’industria automobilistica tedesca e quella agroalimentare italiana resta tutto da vedere. Ma nella narrazione interna possono raccontare di avere evitato guai peggiori, stabilizzato le relazioni e rafforzato l’alleanza transatlantica. A spese dell’autorevolezza e della credibilità della UE.

5. CHI PERDE E CHI VINCE

L’unico vincitore di questa partita pare essere il narcisismo e l’ego ipertrofico di Trump. Mentre a perdere sono un po’ tutti, alcuni più di altri. I conti si potranno fare meglio quando saranno noti e definiti i termini dell’accordo, ma a pagare saranno soprattutto le aziende europee e i consumatori di entrambe le sponde dell’Atlantico, compresi gli elettori MAGA.

A perdere è sicuramente l’Unione Europea in quanto tale come soggetto politico coeso e autonomo in grado di fare valere sul piano internazionale la propria forza economica e i propri principi. Il Canada, ben più piccolo della UE, non si è piegato alle minacce e ai ricatti dell’estorsore e non ha avuto paura di applicare contromisure commerciali. Più di tutti, perde la presidente della Commissione Europea Von der Leyen che dimostra tutta la sua inadeguatezza politica a rappresentare 450 milioni di cittadini europei.

COSA SUCCEDE ORA?

In linea generale, in base ai trattati, gli accordi commerciali con i paesi terzi negoziati dalla Commissione Europea su mandato e per conto degli Stati membri devono essere approvati a maggioranza qualificata dal Consiglio UE e votati anche dal Parlamento Europeo. Non è però ancora chiaro a quale base giuridica la Commissione farà riferimento per questo accordo e quindi quale procedura di adozione sarà seguita. Il modus operandi della Von der Leyen 2 è di accentrare tutto, da brava esecutrice degli Stati e in particolare del suo, riducendo al minimo il confronto e i passaggi in Parlamento. Per ora siamo nel limbo delle dichiarazioni. C’è da augurarsi che le forze progressiste del Parlamento Europeo, su questo come sulla pessima proposta di bilancio pluriennale 2028-2034 presentata dalla stessa VdL, abbiano un sussulto d’orgoglio e facciano sentire la loro voce votando contro.

Nicola Dall’Olio

Quale scempio, ponte tra lo spreco e l’assurdo!

Caro diario

Spesso il mio spirito ha un tremito, mirando un’opera dalla guisa di insaccato che giace lungo il corso del mio amato torrente, e che non ha nemmeno un nome, vien detta “Ponte Nord”. Ah, e io che credevo che i ponti servissero a collegare luoghi, persone, idee! Ma qui, a quanto pare, il solo collegamento è quello tra spreco ben impacchettato e regno dell’assurdo.

Mi raccontano che questo bislacco tubo metallico, i cui bagliori offendono gli occhi da lontano, fu progettato in tempi recenti e nefasti farneticando di farne una “struttura abitabile”! Sventuratamente i manigoldi obliarono di dirci da chi, e per fare cosa.

E dopo una manciata di lustri, eccolo lì: simulacro di potere e ingordigia, monumento all’inutilità, boudoir di vanità malate. Negli ultimi giorni poi taluno, incurante di coprirsi di ridicolo, pare abbia osato accostare questo grottesco artefatto alla Tour Eiffel. La Tour Eiffel! Quel prodigio d’ingegno e audacia, che svetta sulla Ville Lumière come emblema di un’epoca e d’una nazione, paragonato a un salsiccione metallico abbandonato: entrambi sono oggetti originali, certo, ma l’uno è simbolo d’un sogno ardito, l’altro d’un incubo indigesto.

Mi domando con quale improntitudine si possa tentare di giustificare cotanto scempio estetico, al quale non ravviso eguali alla mia epoca. Da Duchessa, volli opere che migliorassero la vita, decorassero la città e nobilitassero lo spirito. Questo ponte, invece, è un palco senza attori sul quale ogni giorno va in scena una farsa.

E ora mi giunge novella che il Comune, in uno slancio di speranza mista a disperazione, ha indetto un bando per cercare chi, bontà sua, voglia utilizzare il ponte, come si lancia un fazzoletto dal balcone sperando che qualche cavaliere lo raccolga. Chi risponderà? artisti della rassegnazione, trapezisti dell’assurdo o illusionisti del danaro pubblico?

Quanto a me, resto in ascolto dai miei salotti celesti, dove l’inutilità non trova posto — ché qui persino le nuvole sanno dove andare. E attendendo che a codesto Ponte Nord possa un giorno trovarsi un senso, una funzione, un’anima o almeno un nome… mi farò portare un ventaglio più grande, ché quello attuale non basta più a lenire il mio sbigottimento.

Maria Luigia d’Asburgo Lorena

Que nul n’agisse en mon nom

Caro diario,

Apprendo con un misto di sbigottimento e sommessa compassione che nella mia amata Parma ha preso forma un nuovo sodalizio, vanitosamente battezzato “Team Vannacci – Maria Luigia”. Un nome che già si copre di ridicolo con questo vezzo delle parole albioniche da parte di chi favella a vanvera di “patria”, e che vuole evocare la mia memoria e l’orgoglio di chi mi fu suddito, ma ahimè risulta cacofonico nell’inverecondo abbinamento . Le cronache narrano di una “prima riunione operativa” sparuto coacervo di trenta pretendenti a un istante di misera gloria politica.

Ma io mi chiedo: cosa mai potrà uscir di buono da costoro, se il loro primo atto è fregiarsi del mio nome di Duchessa, palesemente senza nulla conoscere del mio operato? Io ponevo il mio sigillo su opere a sollievo dei poveri, sulla costruzione di viali ombrosi, ponti eleganti, alla mia corte si celebravano la sobrietà, l’arte, la bellezza, la libertà dei costumi. Se questi figuri davvero credono che basti arraffare un nome di Duchessa per raccogliere brandelli di consenso, allora ci troviamo in un mondo al contrario.

Confesso che il mio nobile cuore duole nel vedere tanti miei amati concittadini lasciarsi abbagliare da tanta volgare sfrontatezza. Questa frenesia del mostrarsi d’acciaio mi ricorda certe armature della mia epoca: pesanti, fragorose, lucidate fino al ridicolo… e spesso vuote all’interno.

Ma che volete? Il secolo nuovo sembra adorare il clamore più che la sostanza. E così, mentre il “team” marcia compatto tra un incontro e una dichiarazione roboante, mi chiedo sommessamente se tanta retorica virile non sia, dopotutto, una corazza fin troppo rigida per contenere qualcosa di più incerto. E se non vi sia, dietro tanta granitica postura, il timore d’un cedimento ben più intimo di quanto si voglia ammettere.

Ad ogni modo, ribadisco: se proprio desiderano far uso del mio nome, che lo facciano per piantare alberi dalle fronde rigogliose, per educare i giovinetti al bene e al bello, per proteggere i deboli, piuttosto che per ostentare volgarità, scherno verso tutto ciò che appare diverso, ricette di governo rudimentali e fantasiose. Che nessuno si azzardi a contrabbandare la mia memoria in uno stendardo agitato da mani troppo tese nella frenesia di farsi notare.

Duchessa Maria Luigia Asburgo Lorena

Arboricidio a Collicolo

Caro diario

Mentre mi ristoro da queste giornate canicolari tra fronde verdeggianti, senza mai cessare di volgere l’occhio a ciò che accade nelle mie amate terre parmensi, mi è giunta notizia di una nuova opera che si vorrebbe intraprendere e questo, di per sé, non mi dispiacerebbe: fui io medesima a promuovere ponti, strade, canali, viali e piazze, purché l’utile andasse sempre accompagnato dal bello, e il bello, a sua volta, da ombre gentili e fruscii di foglie.

Immaginate dunque il mio trasecolare quando ho appreso che codesta “riqualificazione” – orrenda parola moderna, tanto quanto le intenzioni che cela – prevede il taglio di novantasei platani in pieno rigoglio. Novantasei! Una strategia arboricida degna di Attila, più che di amministratori pubblici che pretendono di governare le antiche lande ducali.

Ah, quanto amore posi io nella creazione dei viali alberati, che ornassero le strade ma anche le anime dei passanti! Era mia ferma convinzione che un viaggio non fosse solo spostamento, ma esperienza dell’armonia. E che dire dell’ombra? Consolazione degli affaticati, ristoro dei pensierosi, rifugio degli innamorati e dei filosofi erranti!

Ma oggi — oh, tempi nefasti! — par che la nuova nobiltà non sia più fatta di gentiluomini colti e botanici dilettanti, bensì di burocrati infatuati di escavatrici e cemento. I quali, ahimè, pensano che un albero non sia che un ostacolo sulla loro tabella di marcia. E quel che più mi duole è che la sindaca del borgo di Collicolo (una gentil donna che ama definirsi amica della natura, forse perché l’ha vista una volta in un documentario), pare aver firmato il tutto col piglio con cui un tempo si mettevano al patibolo riottosi e congiurati.

Mi si dice che ella organizzi feste dedicate all’ambiente. Mi chiedo se, per coerenza, offrirà un banchetto anche all’inaugurazione del cantiere, mentre tronchi e rami cadono sotto i colpi delle accette.

Oh, quanto è facile parlare d’amore per la Terra, finché un albero non ostacola un appalto.

Così chiudo questa mia pagina con un auspicio amaro: che il popolo si sollevi contro queste nefaste intenzioni e ottenga, con le buone o con le cattive, la salvezza degli aviti patriarchi verdi.

Maria Luigia Asburgo Lorena

Il referendum è morto, viva il referendum

C’è uno strano silenzio intorno al destino del referendum in Italia. Dopo il fallimento annunciatissimo (nessun osservatore di buon senso ha pensato neppure per un attimo che si sarebbe raggiunto il quorum) della consultazione dell’8-9 giugno scorsi, ci si accapiglia su come leggere i numeri dal punto di vista degli equilibri tra governo e opposizione, ma non ci si occupa della vera vittima di quest’ultimo passo falso: l’istituto del referendum. Eppure dovrebbe preoccuparci, perché stiamo assistendo al lento spegnersi di uno degli strumenti più preziosi della democrazia. Dopo avere dato forma con pagine gloriose alla società italiana contemporanea, da molti anni il referendum abrogativo arranca, sembra ormai un’impresa quasi impossibile raggiungere la fatidica soglia del 50% più uno degli aventi diritto al voto.

Il caso più simbolico resta proprio l’ultima consultazione di successo, quella del 2011, con il voto sull’acqua pubblica e sul nucleare. Gli italiani mandarono due messaggi chiarissimi, con numeri travolgenti: l’acqua è un bene comune, fuori dal mercato e dalle logiche di profitto, e le centrali atomiche non devono trovare spazio sul nostro territorio. A distanza di quasi quindici anni, poco o nulla è cambiato.

In tema di servizio idrico molte gestioni restano privatizzate o affidate a società miste, nessuna maggioranza di governo, di nessun colore, ha mai calendarizzato seriamente una discussione sul tema, la richiesta popolare di un ritorno al controllo pubblico dell’acqua rimane lettera morta.

Lo stesso dicasi per l’altro quesito: oggi si torna apertamente a discutere del ritorno al nucleare come soluzione per la crisi energetica e la decarbonizzazione, nonostante per ben due volte (1987 e 2011) gli italiani abbiano bocciato a suffragio universale quella prospettiva.

La volontà popolare sembra considerata superata, archiviata come un capriccio di un’altra epoca. Il cittadino percepisce che, anche quando va a votare e vince, questo non produce alcun effetto concreto.

Questa delusione ha alimentato un cinismo crescente: “Tanto non serve a niente”, “tanto non lo rispettano” sono i commenti che si sentono ormai con sempre maggiore frequenza. E così l’astensione non è più solo disinteresse, ma anche sfiducia attiva. Un astensionismo che diventa parte del gioco politico, al punto che spesso chi è contrario a un quesito punta proprio sull’astensione per far fallire il quorum, piuttosto che confrontarsi apertamente sul merito delle questioni.

Ma non è solo il quorum a rendere fragile lo strumento referendario. C’è anche un problema di contenuti, di comprensibilità dei quesiti, di distanza crescente tra le formule giuridiche e la percezione dei cittadini. I quesiti sul lavoro della scorsa settimana erano tecnici, poco comprensibili, per un elettore era difficile comprendere quale reale cambiamento avrebbero prodotto nel suo quotidiano. L’esito del voto sulla cittadinanza dovrebbe invece aprire una riflessione piuttosto profonda: il quesito, appoggiato convintamente da tutto il campo del centro sinistra, ha ricevuto moli “no” anche all’interno di quello stesso elettorato, segnalando come esistano nervi scoperti e sensibilità meno scontate di quanto spesso si voglia raccontare.

Se davvero vogliamo salvare il referendum da questa agonia che sembra ormai irreversibile, dobbiamo avere il coraggio di riformarlo profondamente: ripensare il quorum, garantire l’applicazione dei risultati, migliorare la qualità dei quesiti, restituire ai cittadini il senso di partecipare a qualcosa che abbia davvero un peso. Altrimenti resterà una reliquia: uno strumento formalmente in vita, con un passato glorioso, ma sostanzialmente inutile. E questa, in una democrazia, non può mai essere una buona notizia.

Rolando Cervi

Referendum cittadinanza: profondo rammarico

Un paese bloccato, ma la nostra battaglia continua

Con profondo rammarico, il Comitato Referendario Cittadinanza Parma prende atto del mancato raggiungimento del quorum al referendum sulla legge di cittadinanza. *

È un risultato che, purtroppo, conferma una realtà ormai evidente: l’Italia è un Paese politicamente bloccato, incapace di avviare quel necessario processo di cambiamento e riforma che la società civile chiede con urgenza e determinazione.

Questo blocco è il frutto di molteplici responsabilità. È il risultato di un’incapacità diffusa della classe politica – e in particolare dell’attuale maggioranza di governo – di affrontare con coraggio e visione le sfide del nostro tempo. È l’esito di un’Europa ancora ostaggio del potere di veto delle singole nazioni nel Consiglio, sfruttato quotidianamente dai sovranisti per provocare una paralisi decisionale.

Ma il dato più allarmante è rappresentato da una strategia ormai nota: il sabotaggio silenzioso e sistematico dei referendum attraverso l’astensione. Una minoranza ideologicamente ostile ai referendum ha scelto di non confrontarsi nel merito, ma di far naufragare il dibattito affossando lo strumento referendario. Questo fenomeno, che per avere successo sfrutta il quadro generale di crescente disaffezione e disinteresse elettorale, rischia di svuotare ulteriormente il senso della democrazia partecipativa.

Tuttavia, vogliamo esprimere soddisfazione per il dato di affluenza registrato nella città di Parma, superiore alla media nazionale. Un segnale importante che dimostra la sensibilità della nostra città sul tema dei diritti e che, laddove si lavora sul territorio con impegno e unità, è ancora possibile mobilitare energie e coscienze attive.

La nostra battaglia non finisce qui. Il Comitato Referendario Cittadinanza  continuerà il proprio impegno, con nuovi strumenti e nuove forme, per ottenere una riforma della legge sulla cittadinanza che sia giusta, inclusiva e al passo con la realtà sociale del nostro Paese. 

Il nostro obiettivo resta quello di dare pieno riconoscimento e dignità a centinaia di migliaia di persone che vivono, studiano, lavorano e contribuiscono ogni giorno alla crescita dell’Italia.

Il cambiamento è solo rimandato. Ma è inevitabile.

Luca Amadasi

Comitato Referendario Cittadinanza

* L’affluenza ai referendum è stata del 30,6%, sotto il quorum di votanti necessario affinché fosse valido. A Parma l’affluenza è stata del 34% in tutta la provincia e del 37% considerando solo il capoluogo. Lo scrutinio del referendum cittadinanza ha visto prevalere i SI col 65,5% a livello nazionale. In provincia di Parma (compreso il capoluogo) il SI è stato sotto la media nazionale con il 62,67%, mentre in città ha raggiunto quota 67,72%. (Elaborazione dati a cura della redazione, fonte Eligendo).

Investire in Iren? Non ci pare il caso

Dalla community sono giunti diversi commenti sulla destinazione dell’avanzo di 33 milioni del Comune di Parma. I pareri sono unanimi nel valutare con molto scetticismo la possibilità che l’Amministrazione Comunale investa parte di questo tesoretto nel rimpinguare la quota azionaria nella multiutility Iren.

Pubblichiamo due lettere di nostri lettori e lettrici, giunte in redazione. Le firmiamo con le iniziali, come da richiesta.

Opere socialmente utili

Buonasera,

Condivido appieno il concetto da voi espresso in merito al reinvestire su azioni Iren: gli utili abnormi di quella partecipata sono stati raggiunti sulla “pelle” di noi cittadini. Capisco che la finanza non guarda in faccia nessuno, ma la Giunta comunale dovrebbe.

Detto ciò, quel tesoretto dovrebbe essere utilizzato, a mio parere, per realizzare opere socialmente utili (Case della Salute, scuole, piscine…) senza bisogno che siano  opere faraoniche: in tal senso, Parma ha già abbondantemente dato.

Una giunta si può anche ricordare per il buon lavoro fatto!

Ma soprattutto, che venga deciso presto come utilizzarlo: altrimenti rischiano di lasciarlo in eredità alla giunta successiva,  come, anche qui, se non erro, è già successo in passato.

Grazie per il lavoro che fate. 

M.T.

Puntiamo sullo sport

Ho letto con piacere l’articolo sul “tesoretto” del Comune di Parma. Giusto qualche riflessione in ordine sparso…

Mi fa sorridere l’idea di comprare azioni Iren. Da un punto di vista finanziario sicuramente un buon investimento, niente da dire. La società ha chiuso gli ultimi due bilanci con EBITDA superiore al 20%, risultato eccellente, e pagato ottimi dividendi (non ho trovato il bilancio per fare un calcolo preciso). È anche vero però che i dividendi vanno a restituire (piccola?) parte di quello che noi utenti paghiamo in bolletta… Siamo sicuri che Iren (42% flottante e il resto quasi tutto a Comuni vari) utilizzi le proprie risorse per i territori su cui opera? Mi obietteranno: capitalizziamo per investire e distribuiamo dividendi. Vero. Ma un percorso quale certificazione B-Corp e trasformazione in società benefit non renderebbe il tutto più  trasparente?

Perdona la divagazione.

Come investirei il tesoretto? Nello sport. Per i giovani e i meno giovani. Lo sport educa al rispetto degli altri e alla solidarietà, abitua a darsi obiettivi e a misurarsi con se stessi. Perchè non creare spazi dove si possa camminare, correre o fare esercizi all’aperto e in sicurezza? Nuove palestre, piscine e strutture multidisciplina?  Magari avendo anche riguardo che non diventino un concentrato di auto e smog come il campus? Una città dove si fa sport sarà una città dove si utilizzerà meno l’automobile (città sostenibile), si spenderà qualcosa in meno in spese sanitarie, si ridurrà la percezione di insicurezza. E sicuramente anche altro che dimentico.

Io partirei da qui, forse i benefici sono molto a lungo termine, ma a quello dovrebbe guardare la politica.

Un saluto, G.M.

Sanità, esami impossibili da prenotare. Perché non siamo arrabbiati sul serio?

Come sta succedendo a molti che cercano di prenotare una prestazione, anche a me è toccato restare pietrificata quando ieri, in farmacia, ho cercato di prenotare una ecografia. Due posti, uno in cui non potevo liberarmi, un secondo troppo avanti nel tempo. Poi, più niente fino al 2026.

Questo nonostante qualche giorno fa l’Ausl di Parma abbia vantato mirabilie sulla riduzione dei tempi di attesa (leggere il comunicato per credere).

L’ecografia in questione non richiede strumentazioni particolarmente sofisticate. O se le richiede, non c’è modo di saperlo. Saluto la farmacista, imbarazzata anche lei, e mi ripropongo di pensare un momento al da farsi. Sono già diversi gli esami e visite che di recente ho fatto privatamente. Da due anni, 4 su 5: persisto solo con gli esami di laboratorio.

Quindi questa volta mi premeva non soprassedere, usare il SSN, che sarebbe un diritto anche mio, pagando regolarmente le tasse da oltre 20 anni. Riprovo quindi da casa, sul fascicolo sanitario: volevo accedere anche alle strutture in provincia di Reggio Emilia, cosa che in farmacia non era possibile. Bene, per modo di dire. Nessuna disponibilità. Nessuna. Le due di poco prima erano sparite. Chiamo quindi la clinica privata dove ho fatto l’ultima, mi propongono martedì, per 100 euro.

Prima di accettare decido di provare la libera professione, dal fascicolo. Un avviso mi informa che la prestazione che cerco a Parma non c’è, posso andare su altre aziende: Romagna, Bologna, Ferrara, Modena, Reggio Emilia, Sassuolo, Piacenza… tutte tranne Parma. Va bene…per modo di dire. Ma in fondo, per me, andare a Reggio non è un grosso problema. Cerco, ed ecco la terza sorpresa: 4 opzioni ogni giorno, la prima a partire da 2 ore dopo. Subito, immediato. Costo: 55 euro. Sempre a Reggio Emilia, con il SSN non c’era nessuna possibilità.

Questo è solo uno dei tanti casi, potrei menzionare una visita dermatologica cercata a gennaio per la quale il primo posto era a febbraio 2026. Per mio padre, ultraottantenne. Risultato? Privato. Con la sua pensione, quando avrebbe diritto all’esenzione.

Sono certa di non essere vittima di una sfortunata congiuntura, ma di essere solo una delle tante, tantissime persone che sperimentano la negazione di un diritto, nel silenzio generale. Le conseguenze di questa negazione le possiamo anche elencare. La povertà è il primo fattore di rischio per la morte da tumore. Lo dicono le statistiche, non io. La diagnosi precoce serve anche per alleggerire, a tendere, lo stesso SSN, ma la stiamo delegando ai privati, di fatto selezionando solo chi può permettersela. Loro, noi, i fortunati, ingrassiamo il sistema di sanità privata, già bello che pasciuto grazie alle convenzioni. Gli altri, arrivano a farsi curare solo quando ormai è tardi.

Questo è la negazione concreta dei principi costituzionali in base ai quali in Italia abbiamo libero accesso alle prestazioni sanitarie, pagando un ticket sostenibile da chiunque, e avere quel sistema sanitario nazionale di cui andavamo tutti fieri, uno dei migliori al mondo. Ma soprattutto, è la negazione della salute, con il livello diagnostico possibile oggi.

Perché non stiamo scendendo in piazza a protestare contro questa vergogna enorme? Perché non siamo arrabbiati seri? Perché andiamo privatamente. La sfanghiamo ogni volta, obbiettivo raggiunto, e chi non se lo può permettere, si arrangi. In silenzio, viene smantellata la dignità di chi non ha voce o mezzi per fare rumore, che si ammala, ed è da solo.

Chiara Bertogalli

Camminare nella Memoria

La Resistenza nei luoghi dov’è nata

Il periodo che va dalla fine del ’43 all’aprile del ’45 non può essere relegato ad un semplice seppur importante capitolo della storia d’Italia, perché il coraggio delle donne e degli uomini che hanno deciso di opporsi alla dittatura può ancora rappresentare una preziosa lezione per le nuove generazioni, un invito a riflettere sui valori che definiscono la nostra società.

Anche quest’anno, per l’ottantesimo Anniversario della Liberazione, ci ritroveremo a commemorare coloro che hanno sacrificato la vita per difendere la libertà, la giustizia e la dignità umana. Ma perché è così importante ricordare la Resistenza? La risposta ha sicuramente a che fare con la necessità di mantenere viva la memoria storica, di onorare il sacrificio di chi ha lottato contro il fascismo e il nazismo, ma anche e soprattutto con l’urgenza di trasmettere ai giovani l’importanza di opporsi alle ingiustizie, di scegliere la pace, la democrazia, la vita.

La memoria della Resistenza non può tuttavia ridursi ad un esercizio nostalgico ma deve rappresentare un impegno quotidiano. Le guerre, le dittature e le forme di oppressione non sono fenomeni relegati al passato. Proprio per questo, attualizzare quel periodo storico significa imparare a riconoscere le radici del totalitarismo e dell’intolleranza, per non lasciarsi sopraffare da ideologie che minacciano i diritti e la libertà di tutti.

Oggi, a distanza di ottant’anni, abbiamo più che mai bisogno di riscoprire le storie di chi ha agito seguendo il richiamo della propria coscienza. Storie di donne e uomini, giovani e anziani, intellettuali e contadini, preti e militari, che in un momento cruciale della storia dell’umanità hanno deciso di stare dalla parte giusta.

La Resistenza come movimento popolare è andato ben oltre gli orientamenti politici, come dimostra la grande partecipazione delle comunità del nostro Appennino, in larga parte prive di qualsiasi impostazione ideologica. E proprio la nostra montagna rappresenta forse l’ultimo luogo dove è ancora possibile entrare in contatto idealmente con quei ribelli.  Tra sentieri nascosti, rifugi improvvisati, inverni rigidi e decisioni estreme, è lì che la Resistenza ha preso forma. Il nostro Appennino non è stato solo lo sfondo delle vicende partigiane, ne è stato protagonista. Chi ha camminato sui nostri crinali, chi ha sostato nei nostri boschi, sa che quei luoghi parlano ancora. Non con le parole, ma con il silenzio, con la fatica della salita, con l’eco di una storia che ha lasciato segni ancora visibili.

Resti di un rifugio partigiano nei boschi sopra Osacca

Se oggi i principi di “libertà” e “giustizia sociale”, di “democrazia e “solidarietà” sono sotto attacco, tornare in quei luoghi può aiutare, soprattutto le nuove generazioni, a capire che quello che diamo per scontato è stato invece il frutto di scelte concrete, spesso dolorose, di chi si è inerpicato prima di noi, per farci strada.

Marco Cacchioli

Nota della redazione: Marco Cacchioli è guida ambientale escursionista e conduce gruppi alla scoperta delle battaglie e di rifugi e sentieri partigiani in val Taro e val Ceno. Ha dato vita al podcast “La Resistenza in Valtaro e Valceno” in cui narra storie della guerra di Liberazione, andando a fondo anche di vicende controverse. Lo trovate su Spotify