Il popolo non ha pane? Che mangino paura!

Caro diario,

quando volgo il mio augusto orecchio alle antiche terre ducali, odo ormai da anni un cicaleccio molesto e ripugnante: la loquela di troppi politici che, anzichè vegliare sul benessere del popolo, paiono dediti a un’arte più antica delle pietre e più viscida del serpente: quella di instillare paura nei cuori e discordia nelle piazze.

Ah, che sublime trovata! Poiché governare uomini liberi richiede intelletto e virtù, essi hanno deciso di ridurre i cittadini a gregge tremante verso i potenti e branco ringhioso verso i derelitti. Quale finezza strategica! Invece di edificare scuole, spargono sospetti; invece di riparare strade, scavano fossati; invece che ponti, innalzano muri; invece di pane, distribuiscono paura.

In questi giorni la corsa al dileggio della plebe ha toccato il suo culmine: una bislacca invenzione minacciosamente appellata “zone rosse”, sventolata come un drappo davanti a un toro cieco di terrore e di rabbia, illuso di potersi trarre in salvo mentre corre a casaccio verso un fato nefasto.

Io, che ho visto la gloria e il declino di regni ed imperi, non posso che restare allibita dinanzi a tanta mediocrità travestita da furbizia. La politica, un tempo nobile esercizio dell’ingegno, è ridotta a teatrino da fiera, dove i ciarlatani gridano a perdifiato solo per vendere la loro mercanzia avariata di “degrado” e “sicurezza”.

Oh, povero il mio amato popolo! Applaude, trema, si divide. Alcuni gridano contro i forestieri, altri contro i vicini; nessuno più si accorge che la vera causa di ogni nefandezza è la paura, che i mestatori seminano e coltivano con la malignità di un giardiniere che cura rovi e gramigne.

Ahimè, caro diario, se questa è l’arte del governo moderno, paiono degne di maggior rispetto le monarchie assolute, come la mia! Millantavano anche loro di farlo “per il bene del popolo”, ma almeno avevano la decenza di opprimerlo apertamente.

Con un sospiro che sa di sgomento e di rassegnazione, chiudo queste pagine pregando che il popolo si desti un giorno dal suo sonno, e scacci questi lugubri corvi che si pretendono statisti.

Maria Luigia d’Asburgo Lorena

Quale scempio, ponte tra lo spreco e l’assurdo!

Caro diario

Spesso il mio spirito ha un tremito, mirando un’opera dalla guisa di insaccato che giace lungo il corso del mio amato torrente, e che non ha nemmeno un nome, vien detta “Ponte Nord”. Ah, e io che credevo che i ponti servissero a collegare luoghi, persone, idee! Ma qui, a quanto pare, il solo collegamento è quello tra spreco ben impacchettato e regno dell’assurdo.

Mi raccontano che questo bislacco tubo metallico, i cui bagliori offendono gli occhi da lontano, fu progettato in tempi recenti e nefasti farneticando di farne una “struttura abitabile”! Sventuratamente i manigoldi obliarono di dirci da chi, e per fare cosa.

E dopo una manciata di lustri, eccolo lì: simulacro di potere e ingordigia, monumento all’inutilità, boudoir di vanità malate. Negli ultimi giorni poi taluno, incurante di coprirsi di ridicolo, pare abbia osato accostare questo grottesco artefatto alla Tour Eiffel. La Tour Eiffel! Quel prodigio d’ingegno e audacia, che svetta sulla Ville Lumière come emblema di un’epoca e d’una nazione, paragonato a un salsiccione metallico abbandonato: entrambi sono oggetti originali, certo, ma l’uno è simbolo d’un sogno ardito, l’altro d’un incubo indigesto.

Mi domando con quale improntitudine si possa tentare di giustificare cotanto scempio estetico, al quale non ravviso eguali alla mia epoca. Da Duchessa, volli opere che migliorassero la vita, decorassero la città e nobilitassero lo spirito. Questo ponte, invece, è un palco senza attori sul quale ogni giorno va in scena una farsa.

E ora mi giunge novella che il Comune, in uno slancio di speranza mista a disperazione, ha indetto un bando per cercare chi, bontà sua, voglia utilizzare il ponte, come si lancia un fazzoletto dal balcone sperando che qualche cavaliere lo raccolga. Chi risponderà? artisti della rassegnazione, trapezisti dell’assurdo o illusionisti del danaro pubblico?

Quanto a me, resto in ascolto dai miei salotti celesti, dove l’inutilità non trova posto — ché qui persino le nuvole sanno dove andare. E attendendo che a codesto Ponte Nord possa un giorno trovarsi un senso, una funzione, un’anima o almeno un nome… mi farò portare un ventaglio più grande, ché quello attuale non basta più a lenire il mio sbigottimento.

Maria Luigia d’Asburgo Lorena

Que nul n’agisse en mon nom

Caro diario,

Apprendo con un misto di sbigottimento e sommessa compassione che nella mia amata Parma ha preso forma un nuovo sodalizio, vanitosamente battezzato “Team Vannacci – Maria Luigia”. Un nome che già si copre di ridicolo con questo vezzo delle parole albioniche da parte di chi favella a vanvera di “patria”, e che vuole evocare la mia memoria e l’orgoglio di chi mi fu suddito, ma ahimè risulta cacofonico nell’inverecondo abbinamento . Le cronache narrano di una “prima riunione operativa” sparuto coacervo di trenta pretendenti a un istante di misera gloria politica.

Ma io mi chiedo: cosa mai potrà uscir di buono da costoro, se il loro primo atto è fregiarsi del mio nome di Duchessa, palesemente senza nulla conoscere del mio operato? Io ponevo il mio sigillo su opere a sollievo dei poveri, sulla costruzione di viali ombrosi, ponti eleganti, alla mia corte si celebravano la sobrietà, l’arte, la bellezza, la libertà dei costumi. Se questi figuri davvero credono che basti arraffare un nome di Duchessa per raccogliere brandelli di consenso, allora ci troviamo in un mondo al contrario.

Confesso che il mio nobile cuore duole nel vedere tanti miei amati concittadini lasciarsi abbagliare da tanta volgare sfrontatezza. Questa frenesia del mostrarsi d’acciaio mi ricorda certe armature della mia epoca: pesanti, fragorose, lucidate fino al ridicolo… e spesso vuote all’interno.

Ma che volete? Il secolo nuovo sembra adorare il clamore più che la sostanza. E così, mentre il “team” marcia compatto tra un incontro e una dichiarazione roboante, mi chiedo sommessamente se tanta retorica virile non sia, dopotutto, una corazza fin troppo rigida per contenere qualcosa di più incerto. E se non vi sia, dietro tanta granitica postura, il timore d’un cedimento ben più intimo di quanto si voglia ammettere.

Ad ogni modo, ribadisco: se proprio desiderano far uso del mio nome, che lo facciano per piantare alberi dalle fronde rigogliose, per educare i giovinetti al bene e al bello, per proteggere i deboli, piuttosto che per ostentare volgarità, scherno verso tutto ciò che appare diverso, ricette di governo rudimentali e fantasiose. Che nessuno si azzardi a contrabbandare la mia memoria in uno stendardo agitato da mani troppo tese nella frenesia di farsi notare.

Duchessa Maria Luigia Asburgo Lorena

Arboricidio a Collicolo

Caro diario

Mentre mi ristoro da queste giornate canicolari tra fronde verdeggianti, senza mai cessare di volgere l’occhio a ciò che accade nelle mie amate terre parmensi, mi è giunta notizia di una nuova opera che si vorrebbe intraprendere e questo, di per sé, non mi dispiacerebbe: fui io medesima a promuovere ponti, strade, canali, viali e piazze, purché l’utile andasse sempre accompagnato dal bello, e il bello, a sua volta, da ombre gentili e fruscii di foglie.

Immaginate dunque il mio trasecolare quando ho appreso che codesta “riqualificazione” – orrenda parola moderna, tanto quanto le intenzioni che cela – prevede il taglio di novantasei platani in pieno rigoglio. Novantasei! Una strategia arboricida degna di Attila, più che di amministratori pubblici che pretendono di governare le antiche lande ducali.

Ah, quanto amore posi io nella creazione dei viali alberati, che ornassero le strade ma anche le anime dei passanti! Era mia ferma convinzione che un viaggio non fosse solo spostamento, ma esperienza dell’armonia. E che dire dell’ombra? Consolazione degli affaticati, ristoro dei pensierosi, rifugio degli innamorati e dei filosofi erranti!

Ma oggi — oh, tempi nefasti! — par che la nuova nobiltà non sia più fatta di gentiluomini colti e botanici dilettanti, bensì di burocrati infatuati di escavatrici e cemento. I quali, ahimè, pensano che un albero non sia che un ostacolo sulla loro tabella di marcia. E quel che più mi duole è che la sindaca del borgo di Collicolo (una gentil donna che ama definirsi amica della natura, forse perché l’ha vista una volta in un documentario), pare aver firmato il tutto col piglio con cui un tempo si mettevano al patibolo riottosi e congiurati.

Mi si dice che ella organizzi feste dedicate all’ambiente. Mi chiedo se, per coerenza, offrirà un banchetto anche all’inaugurazione del cantiere, mentre tronchi e rami cadono sotto i colpi delle accette.

Oh, quanto è facile parlare d’amore per la Terra, finché un albero non ostacola un appalto.

Così chiudo questa mia pagina con un auspicio amaro: che il popolo si sollevi contro queste nefaste intenzioni e ottenga, con le buone o con le cattive, la salvezza degli aviti patriarchi verdi.

Maria Luigia Asburgo Lorena

Quale titanica arena per ludi pedatori!

Caro Diario

sventurata è la vista che si trova dinnanzi a tale monstruosità! Un’arena per ludi pedatori dall’architettura futuristica, insensata titanica creazione, con finanche un parcheggio sotterraneo per carrozze semoventi conficcata nel cuore della città! Che arditezza, che sacrilegio nei confronti dell’armonia architettonica che fino ad oggi, con tanto impegno, i miei amati sudditi avevano saputo preservare.

Chi sono questi figuri, sbarcati dalle lande transoceaniche ostentando tasche traboccanti, che ardiscono erigere simili costruzioni circensi, altari alla Dea Eupalla, meta di plebi vocianti e orde di lanzichenecchi latori di disordini e tumulti?

E che ne pensano gli sconsiderati che amministrano quella che fu la capitale del mio augusto regno? Non avranno intenzione di porre il loro sigillo su questa dissennata intrapresa?

Ma, come si conviene a noi nobili, sappiamo volgere un guardo indulgente anche a tali sventure. Forse, in qualche maniera bizzarra, intendono rendere tributo ai loro illustri progenitori. Forse vogliono dimostrare con questa creazione, in cui il buon gusto e la saggezza sono stati sacrilegamente conculcati, che la nostra grandezza non può essere superata. Perché altrimenti nulla, se non un incubo o qualche malsano delirio, potrebbe spiegare un simile affronto alla bellezza e all’eleganza che la nostra epoca ha saputo generare!

Sarà, dunque, un’insolita pietra miliare nella storia della nostra città, un segno di un’epoca futura che forse riusciremo a decifrare soltanto con l’andar del tempo. E che tempo! 90 anni nientemeno, a quanto mi è stato riferito, di occupazione da parte dei barbari. Ben strano destino, essere spettatori di questo strambo balletto tra il passato e il futuro, mentre noi nobili continueremo ad alimentare l’eterna fiamma della tradizione e della nobiltà d’animo.

Tua Duchessa ML Asburgo Lorena

Che divieti bislacchi

Oh, caro diario,

sono qui a sfogare la mia pena e la mia incredula indignazione per l’assurdità di cui sono testimone. Sì, perché oggigiorno le stranezze sembrano dilagare come la peste, e la mia pazienza aristocratica è messa a dura prova!

Ebbene, nel cuore della nostra sventurata città, una bislacca decisione è stata presa da coloro che indegnamente la governano in mia vece: il divieto di vendere bevande in bottiglia nelle ore serali! Un affronto senza precedenti alla nostra gloriosa tradizione di festeggiamenti e baccanali, che ci ha portato al culmine della civiltà!

Ma chi sono costoro che osano privarci delle deliziose libagioni che deliziano i palati e rallegrano l’umore? Certo, potrei fare un lungo elenco delle ragioni per cui questa decisione è del tutto folle, ma sarebbe come cercare di istruire un lanzichenecco nelle arti delle buone maniere!

E così, oggi mi è giunta voce di questa sciagurata restrizione. All’inizio, pensavo fosse una sorta di beffa, ma, oh, il dolore quando ho capito che era tutto vero! Dopo avere rivolto al tristo latore della novella un attonito “ma dabò?”, subito seguito da un indignato “che nador!” ho immediatamente convocato il gabinetto dei miei consiglieri, per discutere di questo gravissimo affronto alla nostra società. Il mondo sta impazzendo, sono forse io l’unico faro di lucidità in questo marasma!

Come potremo continuare a tessere i nostri intrighi, i pettegolezzi e gli affari di cuore senza il prezioso aiuto delle libagioni? Le notti nei saloni nobiliari e nelle strade della città saranno ridotte a ritrovi tediosi e sonnolenti, e la nostra società, orba del suo tonico preferito, perderà ogni fascino.

Ma, caro diario, ecco il culmine dell’assurdità: sembra che la ragione addotta per tale divieto sia la preservazione della pubblica sicurezza, del decoro urbano e della quiete pubblica! Parole vuote di senso, degne di politici retrivi, privi di idee. Come se vietare le bottiglie di vetro e riempire gli augusti lastricati delle nostre strade di dozzinali bicchieri di plastica potesse condurre alla redenzione dei vizi del popolino! Ma noi siamo nobili, siamo fatti di una pasta diversa, non ci lasciamo sedurre da queste favelle ingannevoli!

In conclusione, caro diario, sono sconvolta da questa bizzarra decisione! Ma non temere, perché la mia indignazione e il mio spirito ribelle mi spingeranno a trovare un modo per eludere questa meschina prevaricazione. Il nobile ingegno non conosce ostacoli, e se qualcuno vuole privarci dei piaceri di Bacco, allora dovremo ricorrere a misure segrete per assaporare le nostre bevande preferite.
Al diavolo i divieti, siamo nobili, siamo scandalosi, siamo vivaci! Che il mondo sappia che la Duchessa non sarà mai domata da leggi tanto ridicole.

Tua Duchessa M.L. d’Asburgo Lorena

Scempiaggini volanti

Caro Diario,

Oh, l’incessante stillicidio delle sciagure che affliggono i nostri tempi! Oggi mi trovavo di fronte a una situazione di una viltà tale da far impallidire i gigli dei nostri campi e far rabbrividire i denti delle menestrelle nelle loro rime canterine. Sono stata chiamata a pronunciare il mio giudizio su una proposta di espansione del malandato aeroporto della mia amata Parma, uno scempio e un insulto al buon gusto aristocratico che ancora grida nella mia anima, almeno quanto griderebbe alle orecchie dei miei amati sudditi il frastuono delle carrozze volanti per il trasporto delle mercanzie, detti cargo.

Con l’aria sprezzante e la grazia tipiche di una duchessa, ho accolto i messaggeri dei comuni mortali che si permettevano di chiedermi consiglio su tale vicenda, uno dei quali addirittura dal triplo cognome e dalle auguste ascendenze. Quelle creature si pavoneggiavano davanti a me con il loro debole argomentario, nominato masterplan con vezzo albionico, farneticando di utilità economica e di connettività mondiale. Come osavano tentare di sedurre la mia nobile ragione con tali melodie volgari! Quando poi, ohibò, nemmeno una diligenza alata conduce a Parigi, dove potrei recarmi in visita al mio imperiale consorte.

Ho ascoltato le loro parole, eppure i miei pensieri si sono perduti in un vortice di disprezzo. Ho quindi preso in mano la mia penna e ho scritto una risposta affilata come una spada adornata, pronta a colpire le loro speranze sperdute. Mi sono concessa una gioia sinistra nell’arricciare le lettere, inchiostro scuro come l’abisso della loro insensatezza.

“Cari concittadini”, ho iniziato, “permettetemi di esprimere la mia commozione per la vostra audacia nel rivolgervi a me per il mio giudizio. Tuttavia, devo informarvi che la vostra proposta di espandere l’aeroporto locale è tanto ridicola quanto il vestito di un pagliaccio durante una celebrazione reale.”

Ho continuato a ricordare loro la nobiltà delle nostre terre, la delicatezza delle nostre tradizioni e l’immortalità della nostra eredità culturale. Li ho scherniti per la loro cecità nell’apprezzare la bellezza e la maestosità che permea il nostro regno.

“Inoltre”, ho scritto con un pizzico di beffa, “non mi sembra che il vostro disastroso aeroporto in declino richieda un’espansione. Forse, invece, dovreste più saggiamente considerare di farne campi di pallacorda o arena per ludi equestri”

Ho concluso la mia lettera con un’accorata invocazione per il loro ritorno alla ragione e per l’abbandono delle loro ridicole ambizioni. “Nobilissimi sudditi, fatevi coraggio”, ho scritto con sarcasmo acuto come il taglio di un fioretto. “Il vostro aeroporto può cadere nel dimenticatoio come una piuma spazzata via dal vento, mentre noi, nobili spiriti, continueremo a governare queste terre con grazia e magnificenza.”

Oh, caro diario, mi sono deliziata nel redigere questa risposta. La mia penna danzava sulla carta come una ballerina in un ballo raffinato. È giunto il momento di far risuonare la voce dell’aristocrazia e di smascherare le sciocchezze dell’era moderna. Non c’è spazio per l’espansione di un aeroporto in fallimento in questo mondo di eleganza e raffinatezza.

Che le mie parole risuonino per secoli a venire, a perenne ricordanza della mia saggezza regale.

Tua Duchessa

M.L. d’Asburgo-Lorena

La reggia invasa da ghenghe chiassose

Caro diario,
Con profonda e smarrita perplessità mi rivolgo a te, orecchio discreto dei miei turbamenti, affinché conosca le amare vicende che hanno gettato un’ombra di sconcerto e indignazione sul mio nobile cuore. Il mio scritto odierno non nasce dal desiderio di tormentarti con le mie lamentele, ma dalla necessità di condividere il mio dispiacere per un fatto che ha scosso le fondamenta dell’armonia e della dignità nella nostra raffinata dimora.

Si dà il caso che la nostra reggia, luogo di grazia e distinzione, sia stata recentemente invasa da ghenghe composte di individui chiassosi, armati di strumenti rudimentali e dalla musica rumorosa e selvaggia, accompagnata da moltitudini dalla condotta non meno clamorosa, che con il loro fragore insensato hanno violato la quiete e l’eleganza dell’augusto giardino.

Ma più di tutto mi ha gettato in ambasce scoprire che in queste nefande occasioni il parco è precluso alla frequentazione dei miei amati sudditi, che da sempre ne fanno luogo di svago e ricreazione, non di rado peccaminosa, e vi trovano sollievo dalle giornate canicolari.

Prego che tanti condividano il mio dispiacere e si uniscano alla mia voce per richiedere che la dignità e l’ordine siano ripristinati nel nostro giardino.

Chiedo che sia restituito ai miei amati sudditi, per riportare loro la serenità e la bellezza che solo il verde può offrire. Sono certa che la mia preoccupazione sarà compresa, e che le plebi si uniranno a me in questa nobile causa.

Tua Duchessa M.L. d’Asburgo Lorena