Parma-Lecce 0-1, a proposito di sconfitte

Ci incrociamo, come ormai d’abitudine, sotto i gradoni della Nord.
Ci riconosciamo da lontano e sorridiamo, ci abbracciamo stretti, avvolti nelle nostre sciarpe.

La mia è un reperto storico: una Crusaders originale del campionato 86-87; lui invece ne porta una molto diffusa oggi, specie tra i più giovani: dio-stramaledica-i-reggiani.

Sta distribuendo i volantini con il consuntivo annuale dei Boys1977, il gruppo del tifo organizzato. Non ha importanza soffermarsi su numeri e pensieri, giudizi e prospettive, quanto sulla chiusura: Parma siamo noi!

Così, a caldo, può sembrare una frase esagerata, autoreferenziale, roboante. E forse lo è. Però, poi, a guardare bene…

Le proprietà si avvicendano non sempre lasciando un buon ricordo (Tanzi, Ghirardi, Manenti ecc); per non parlare dei giocatori: oggi qui, domani chissà; stessa sorte per le guide tecniche. Anche gli sponsor sono ormai ballerini.

Le rose non sono più composte da giovani della provincia e dintorni, cresciuti nelle giovanili.

A conti fatti, se dovessimo trovare una costante, un vera coerenza, davvero forse bisognerebbe guardare in curva.

Parma, è una città dalle mille peculiarità e vale anche per il calcio.
Se non sono poche le società che, un po’ per convinzione, un po’ per convenienza hanno ritirato la maglia 12 dalla numerazione disponibile, in onore del dodicesimo uomo in campo, ovvero il pubblico, pochissime sono le tifoserie che cantano esclusivamente per la squadra e non per i giocatori.

È una rarità nel mondo del pallone, che facilmente s’innamora del centravanti da 20 gol, del portiere saracinesca, del fantasioso trequartista o del giovane di belle speranze.
E questo, ovviamente, succede ancora, anche a Parma.
Ma per scelta ormai antica, nessuno intona cori con i nomi dei giocatori.

La storia fuori dalla curva non è così conosciuta: qualche lustro fa la Parmalat è stata più o meno lecitamente proprietaria non solo del Parma, ma anche di un’altra società situata immediatamente oltre il confine orientale del fiume Enza. Quella squadra navigava verso il fondo della classifica e nel recupero infrasettimanale di una partita di campionato riuscì a battere agevolmente un Parma particolarmente remissivo per 2-0.

Da quel momento, i cori si sono diradati, la fiducia verso i giocatori crollata e ha iniziato a svilupparsi un sentimento molto forte per i colori, che andasse ben oltre i singoli, per quanto apprezzati, interpreti.

Oggi, nemmeno prestazioni sfavillanti, promozioni o exploit riescono a rimettere in bocca ai tifosi i nomi stampati sulle magliette per canti condivisi e scanditi.

Uno dei cori più sentiti, per quanto non spesso proposto, sulle note di Maledetta Primavera cantata da Loretta Goggi recita proprio “chissenefrega giocherà la Primavera, ci basterà veder la maglia per cantare ancora”.

Anche per questo, forse, il momento in cui siamo ripartiti dalla D è stato davvero un anno zero, molto bello. In cui il calcio, il tifo, i colori, la passione, la partecipazione erano sopra qualsiasi altro aspetto. Lo certifica il numero spropositato di abbonamenti, non solo agevolato dal costo irrisorio, ma anche la partecipazione massiva alle trasferte esotiche di Arzignano, Chioggia, Brescello, Carpi e via dicendo.
Da lì, credo che il seme della crociata, la maglia, abbia trovato terreno fertile in tanti bambini che oggi sono ragazzi che sventolano bandiere e cantano a squarciagola nella Nord.

Detto questo la passione per il singolo resta strisciante e in curva, le magliette sono tantissime.
Ci sono le crociate, le besione (quelle a righe orizzontali gialle e blu), le prosciutte (quelle degli ultimi anni di C e B e la prima storica A), molte, naturalmente, le ultime versioni commerciali e, a onor del vero, poche sono quelle anonime, senza il nome di un qualche giocatore.

Tante quelle degli attuali interpreti, con prevalenza di Del Prato e Bernabè; alcune del recentissimo passato: Bonny, Man, Mihaila; qualche giovanissimo come Circati o addirittura Corvi e Plicco (tra i pochissimi pramzani-parmensi allevati in casa); ovviamente tante che riportano alle pagine gloriose con Cannavaro, Thuram, Veron, Chiesa, Crespo, Dino Baggio (prima o poi, di lui dovremo scrivere, perché è il vero e più profondo idolo della Nord) come della clamorosa cavalcata guidata da mister Nevio Scala: Benarrivo, Di Chiara, Grün, Brolin. O di chi ha scelto di rimanere, sempre e comunque, come Lucarelli.

Ma quello che non smette mai di stupirmi, è la marea di casacche dedicate agli eroi minori.
Perché il calcio, il tifo, la curva, è esattamente questo: qualcosa di viscerale, ancestrale, insondabile, che tocca corde della sensibilità personale spesso incomunicabili, incomprensibili, inavvicinabili.
A volte, sul nome o il numero c’è l’autografo e allora ci sta anche il valore del momento, del ricordo, del cimelio.
Ma in certi casi, è solo poesia del calcio: Brugman, Brunetta, Schiappacasse, Siligardi, Potenza, Kutuzov, Lanzafame, Grella, Paponi, Gasbarroni… con la consapevolezza che è un elenco senza fine e che potrebbe scatenare ricordi indelebili, quelli che, esattamente a ogni occasione, ci riportano in curva, a sostenere i nostri colori e la nostra città.

Di Parma-Lecce, cosa dire?
Ci affidiamo alle parole di un grandissimo tifoso del Parma, che incrociamo spesso sui gradoni e che leggiamo sempre con enorme piacere, Paolo Nori: “A me, piacciono molto due cose che fanno piangere: la letteratura russa e le partite del Parma”.

Parma-Lecce 0-1 (Rete: 38′ Sottil)

Sabato 4 ottobre 2025, Stadio Ennio Tardini, 19.580 spettatori (di cui 13.081 abbonati e 3.179 ospiti) 

Giallo & Blu 🟡 🔵

Parma-Torino 2-1, al lunedì ha un altro sapore

Io salgo, dietro la porta, proprio in mezzo, sugli scalini come quand’ero ragazzino; lui resta giù, a due passi dal campo, dove la partita si sente, più che vedersi.
Il sole tramonta, in quella parte di settembre sospesa tra l’ultimo calore e il primo freddo.

È lunedì.

Non ricordo neanche bene, tolte le coppe, qual è stata la mia prima partita infrasettimanale, o meglio, non di domenica.

Il calcio, la partita, un tempo che sembra ormai remoto, era un rito e come tale codificato.
Si giocava la domenica, gli unici esotismi erano gli orari: alle 15 in autunno, 14.30 durante l’inverno, le 16.30 per il finale di stagione, coi primi caldi.
La televisione, i gol, si vedevano a 90°minuto, Tele+ era un progetto davvero lontano; figuriamoci tutto il resto.

Giocare nei feriali voleva dire recupero di una qualche partita sorprendentemente rinviata. Per neve, nebbia, cataclismi.

Il calcio, non certo da solo, non certo unico, è lo specchio dei tempi, un’evoluzione continua e costante e una sorta di saturazione del tempo e dello spazio.

Sono comparsi gli sponsor sulle maglie e in breve sono diventati onnipresenti: non solo sul petto, ma su maniche, pantaloncini, wall delle interviste.
Ogni cosa è sponsorizzata, brandizzata e rinnovata annualmente: pallone, magliette diverse per allenamento, riscaldamento, match. Bevande, tempo libero e l’immancabile pubblicità su cartelloni rotanti e maxi schermo.

E poi la numerazione, che andava dall’1 all’11 in rose che avevano 16 giocatori e una formazione titolare che si imparava facilmente a memoria nelle prime uscite stagionali.
Oggi, invece, i numeri arrivano al 99, ciascuno ha i nomi stampati sulle spalle, le rose sono formate da un numero ampio e quasi imprecisabile di ragazzoni che vengono da ogni parte del mondo, mentre una volta, nemmeno troppo indietro, gli stranieri erano tre (addirittura due, anche uno e prima ancora perfino vietati!), mentre oggi sono la quota di maggioranza in ogni formazione e roster. La formazione è diversa ogni tre giorni.

Se da un lato è inevitabile la nostalgia per la mia gioventù e i giocatori del Parma di Nevio Scala che arrivavano in bicicletta per allenarsi in Cittadella, dall’altro ci sono cose che non cambiano davvero mai. E sono sprazzi di puro istinto.

Non capita a ogni partita, ma ci sono dei momenti, in cui i cori sembrano davvero prendere, sollevare la squadra e portarla oltre. È appunto un momento raro, in cui lo stadio si esprime con una voce sola, e tutto il Tardini si infiamma a sostenere, a sorreggere, a spingere la squadra.

Ieri i crociati sono scesi in campo con la terza maglia, quella che richiama nella foggia e colori la storica promozione in A e i primi successi nazionali e internazionali (bianca con righine gialle e blu sulle maniche e le spalle).

Ma a lungo, hanno sofferto la predominanza del Torino. Tante volte, in queste situazioni, il pubblico rumoreggia, indisponente, indisposto, indispettito.
Del resto, siamo la città del brusio dal loggione per ogni sporcatura operistica.

Ieri no, tante volte, anche partendo dalla tribuna, dai distinti oltre che dall’immancabile curva, i battimani, gli incitamenti, i cori si sono ampliati, ingrossati fino a diventare una sola voce, un solo grido a sostegno.

In quei momenti, ci si sente parte di qualcosa di più grande di sé, del proprio istinto di tifoso, ma si diventa altro, un altro che non so nemmeno definire, ma di cui è bellissimo far parte. Forse anche di più che abbracciare sconosciuti, saltare sulle spalle di vicini mai visti, urlare a perdifiato, disarticolare i propri movimenti ancestrali, in una sorta di ipnosi meravigliosa.

Insomma, davvero, ti amo anche quando vinci.
E ieri, s’è vinto col cuore.

Parma-Torino 2-1 ( Reti: pt 36′ (rig), st 32′ Pellegrino, st 4′ Ngonge).

Stadio Tardini, 29 settembre 2025

Giallo & Blu 🟡 🔵

Cremonese-Parma 0-0 “Ti amo anche quando vinci”

Cremonese-Parma è la nostra prima partita dell’anno, serie A, stagione 2025/26. Un esordio che ha richiamato alla mente altri inizi, indelebili.

La mia prima partita è stata Parma–Carrarese 2-0 nel campionato vittorioso del 1983-84 (serie C). Quella di mio figlio, Parma-Ascoli 4-0, in altro campionato finito con una promozione nel 2017-18 (serie B).

A distanza di anni, parlandone, abbiamo scoperto che per entrambi, le prime partite, hanno un sapore e un ricordo speciale, ma soprattutto una dinamica unica.

I primi dieci, quindici minuti passati ad ammirare la curva, rapiti dai cori, dai tamburi, dai fumogeni e dai colori. Qualcosa di magico e ancestrale, per certi aspetti inspiegabile.

Mio nonno mi portava nei distinti, e così io per le prime partite del mio piccoletto.

Poi, mi sono spostato progressivamente in curva con gli amici; mentre mio figlio, al termine di un campionato vissuto sul lato lungo del campo mi ha chiesto “Però, l’anno prossimo l’abbonamento, possiamo farlo in curva nord?”.

Chi racconta il calcio, lo fa quasi sempre dalla tribuna: giornalisti, intellettuali, appassionati.

C’è poco, da noi, in Italia, raccontato dalla curva.
Forse figlio, anche, di un pregiudizio storico, in cui si pensa che il tifo organizzato sia soprattutto violenza, scontri, assenza di regole, ricerca di impunità.
Che, talvolta, è anche quello, ma non solo.

Per me è stato, ad esempio, un luogo di emancipazione e libertà, dove essere accolto, mai giudicato e potermi esprimere senza maschere o forzature.
Per lui, anche: la scoperta di socialità, responsabilità e autonomia, tra le altre cose.

La curva è una società nella società, con riti e miti fondativi e una composizione particolarmente eterogenea che poi si riunisce attorno a valori comuni e una sorte di identità ben definita.

In un tempo in cui socialità, comunità, identità e valori stentano ad affermarsi con fermezza e chiarezza, a noi la curva continua a sembrare un posto bello, nonostante alcune ovvie storture.
E, senza dubbio, un luogo dove passione e fede si professano continuamente e settimanalmente.

Parma è una delle curve più giovani del calcio italiano: piena di ragazzini dai 12 anni in su. Alcuni entrano coi genitori e poi si staccano; altri, già intorno ai 14, arrivano insieme con i propri coetanei e sono impegnati non solo nei canti, ma anche nelle coreografie e nelle varie attività della curva. Con una quota non trascurabile di ragazze.

In un mondo adolescenziale sempre più virtuale, immateriale o eccessivamente materiale di ricerca di lusso, successo, affermazione spesso rapida e non sempre pienamente motivata guidata dai social, la curva resta una interessante eccezione.
Dove voce, grida, mani, occhi e cuore hanno ancora la meglio su uno schermo.
Anche al di là, molto al di là, dei risultati sportivi, sintetizzato splendidamente in uno degli stendardi in cui oggi tantissimi si riconoscono “Ti amo anche quando vinci”.

Non voglio, non vogliamo, avere pretese di analisi sociologiche né politiche, ma offrire un punto di osservazione altro e diverso rispetto al mondo del pallone.

Ieri ci siamo fatti 10 ore in giro, per una partita di due ore e sessanta km tra andata e ritorno; sintesi di passione e della atavica precarietà e impreparazione e vessazione del nostro Stato: nessun coordinamento tra le varie Forze dell’Ordine per la gestione del corteo in arrivo da Parma, l’infiltrazione dei tifosi granata arrivati da Reggio Emilia, gemellati coi cremonesi, che hanno causato diversi scontri; l’interminabile attesa all’ingresso e all’uscita dello stadio e del parcheggio dello stadio; il calore squagliante di una curva datata e completamente esposta al sole, il costo ormai fuori controllo dei biglietti delle partite per le trasferte, condito da ingiustificabili costi extra come quelli del parcheggio ospiti; per non parlare della disorganizzazione e dei costi dei bar dentro gli stadi, al limite dell’estorsione e del sequestro di persona.

Eppure, ogni settimana, non vediamo l’ora di metterci la sciarpa al collo e avviarci verso il Tardini o gli altri stadi lungo la via, tenendo per mano i nostri figli e nipoti.
Chiacchierando con gli amici, sorridendo alle persone che nel corso degli anni sono diventati volti familiari con cui condividere alcuni momenti significativi del nostro tempo.
Confrontandoci, o prendendoci in giro, ridendo di battute sagaci o sguaiate, gridate a pieni polmoni.
E talvolta abbracciandoci in maniera travolgente, spontanea, selvaggia e libera.

Poi, ovviamente, c’è anche la partita. Finita 0-0. Per oggi, la parola la lasciamo a chi ne capisce, di calcio.
Ci risentiamo dopo Parma-Torino. Di lunedì, alle 18.30. Così, per dire.

Giallo & Blu 🟡🔵