Il referendum è morto, viva il referendum

C’è uno strano silenzio intorno al destino del referendum in Italia. Dopo il fallimento annunciatissimo (nessun osservatore di buon senso ha pensato neppure per un attimo che si sarebbe raggiunto il quorum) della consultazione dell’8-9 giugno scorsi, ci si accapiglia su come leggere i numeri dal punto di vista degli equilibri tra governo e opposizione, ma non ci si occupa della vera vittima di quest’ultimo passo falso: l’istituto del referendum. Eppure dovrebbe preoccuparci, perché stiamo assistendo al lento spegnersi di uno degli strumenti più preziosi della democrazia. Dopo avere dato forma con pagine gloriose alla società italiana contemporanea, da molti anni il referendum abrogativo arranca, sembra ormai un’impresa quasi impossibile raggiungere la fatidica soglia del 50% più uno degli aventi diritto al voto.

Il caso più simbolico resta proprio l’ultima consultazione di successo, quella del 2011, con il voto sull’acqua pubblica e sul nucleare. Gli italiani mandarono due messaggi chiarissimi, con numeri travolgenti: l’acqua è un bene comune, fuori dal mercato e dalle logiche di profitto, e le centrali atomiche non devono trovare spazio sul nostro territorio. A distanza di quasi quindici anni, poco o nulla è cambiato.

In tema di servizio idrico molte gestioni restano privatizzate o affidate a società miste, nessuna maggioranza di governo, di nessun colore, ha mai calendarizzato seriamente una discussione sul tema, la richiesta popolare di un ritorno al controllo pubblico dell’acqua rimane lettera morta.

Lo stesso dicasi per l’altro quesito: oggi si torna apertamente a discutere del ritorno al nucleare come soluzione per la crisi energetica e la decarbonizzazione, nonostante per ben due volte (1987 e 2011) gli italiani abbiano bocciato a suffragio universale quella prospettiva.

La volontà popolare sembra considerata superata, archiviata come un capriccio di un’altra epoca. Il cittadino percepisce che, anche quando va a votare e vince, questo non produce alcun effetto concreto.

Questa delusione ha alimentato un cinismo crescente: “Tanto non serve a niente”, “tanto non lo rispettano” sono i commenti che si sentono ormai con sempre maggiore frequenza. E così l’astensione non è più solo disinteresse, ma anche sfiducia attiva. Un astensionismo che diventa parte del gioco politico, al punto che spesso chi è contrario a un quesito punta proprio sull’astensione per far fallire il quorum, piuttosto che confrontarsi apertamente sul merito delle questioni.

Ma non è solo il quorum a rendere fragile lo strumento referendario. C’è anche un problema di contenuti, di comprensibilità dei quesiti, di distanza crescente tra le formule giuridiche e la percezione dei cittadini. I quesiti sul lavoro della scorsa settimana erano tecnici, poco comprensibili, per un elettore era difficile comprendere quale reale cambiamento avrebbero prodotto nel suo quotidiano. L’esito del voto sulla cittadinanza dovrebbe invece aprire una riflessione piuttosto profonda: il quesito, appoggiato convintamente da tutto il campo del centro sinistra, ha ricevuto moli “no” anche all’interno di quello stesso elettorato, segnalando come esistano nervi scoperti e sensibilità meno scontate di quanto spesso si voglia raccontare.

Se davvero vogliamo salvare il referendum da questa agonia che sembra ormai irreversibile, dobbiamo avere il coraggio di riformarlo profondamente: ripensare il quorum, garantire l’applicazione dei risultati, migliorare la qualità dei quesiti, restituire ai cittadini il senso di partecipare a qualcosa che abbia davvero un peso. Altrimenti resterà una reliquia: uno strumento formalmente in vita, con un passato glorioso, ma sostanzialmente inutile. E questa, in una democrazia, non può mai essere una buona notizia.

Rolando Cervi

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