Il giorno che non sconvolse niente
Sospiro di sollievo. Il casaro può continuare a miscelare tranquillo il latte nelle caldere del parmigiano-reggiano. I dazi trumpiani sono stati sospesi all’ultimo minuto e il 9 aprile 2025 non sarà ricordato nella storia.
Anche a Parma e in Emilia il respiro è stato profondo e, appunto, di sollievo. La preoccupazione per le ricadute sull’economia locale, in conseguenza delle mosse del governo americano, c’erano tutte. E non sono svanite. La sensazione di turbolenze rimane incombente. Anche perché comunque un dazio flat al 10% è stato comunque imposto dagli USA a tutti i paesi (Cina a parte). E ammesso e non concesso che sia stata una strategia speculativa sulle Borse che, tramite vendite e acquisti al ribasso, ha permesso di arricchire la stretta cerchia del governo oligarchico americano.
Ci si stava preparando ai dazi e controdazi. Giusto per dare l’idea UnionCamere Emilia-Romagna ha pubblicato giovedì un accurato report sull’interdipendenza tra Emilia-Romagna (e dunque Parma) e USA. Lo studio “Dall’America all’officina. Quando il mercato statunitense fa la differenza” è stato curato da Guido Caselli, vicepresidente UnionCamere. Ne riportiamo qualche stralcio e tabella.
“Chi esporta? – Ecco i numeri riportati da Unioncamere – sono 5.788 le imprese che hanno esportato verso gli Stati Uniti dall’Emilia-Romagna nel 2024. Il 73% di queste, pari a 4.305 imprese, hanno sede legale in Emilia-Romagna, e realizzano l’84% del fatturato export complessivo. L’automotive, con 276 società, vale un terzo dell’export complessivo. La meccanica assomma oltre 1.100 imprese e realizza un quarto di quanto venduto negli USA. Tra i prodotti al primo posto si collocano le auto da turismo seguite dalle le piastrelle; nella top ten anche macchine per il packaging, imbarcazioni da diporto, parmigiano reggiano. 1.144 aziende esportatrici sono ditte individuali o hanno fatturato inferiore al milione. Le imprese più grandi, con oltre 25 milioni di fatturato, sono 788, pari al 18% del totale esportatrici, e realizzano l’86% del commercializzato negli USA”.

“Chi rischia di più? – si chiede Unioncamere dando voce alla domanda comune –
Per valutare il rischio che i dazi e le politiche commerciali di Trump rappresentano per ciascuna impresa nello studio è stato calcolato un indice di vulnerabilità del mercato americano attraverso il rapporto tra export verso gli Stati Uniti e fatturato globale. Sono state considerate vulnerabili, con differenti livelli di rischiosità, le imprese per le quali il mercato americano contribuisce per almeno il 5% alla realizzazione del fatturato aziendale complessivo. Non che per le altre aziende l’imposizione dei dazi sia irrilevante: l’individuazione della soglia del 5% è solo per dare evidenza alle società che rischiano di essere fortemente penalizzate dall’applicazione dei dazi. Le imprese vulnerabili sono 1.256, il 29% delle esportatrici negli Stati Uniti. Tra le imprese con esposizione maggiore ritroviamo 93 delle prime 100 imprese esportatrici. A livello settoriale sono le filiere collegate alla meccanica a presentare i valori di vulnerabilità più elevati: dal 43% delle aziende delle macchine per l’agricoltura fino al 33% dell’automotive”.
Per chi vuole approfondire consigliatissimo l’intero rapporto. Lo trovate qui.

Sebbene, come visto, siano i manufatti della meccanica quelli che generano maggior valore nell’export e senza ignorare la simbolicità di Ferrari, Lamborghini e Ducati, il prodotto per eccellenza che identifica l’Emilia, e Parma, è il formaggio parmigiano-reggiano. Perché è sulle nostre tavole tutti i giorni, è buono, e identifica e rappresenta l’immagine di una filiera che fa food valley: l’erba dei prati stabili, le vacche nelle stalle, la mungitura, il latte nelle caldere, le forme rotonde che stagionano impilate negli scaffali altissimi.
Il parmigiano-reggiano ha trovato terreno fertile in USA.
Le vendite totali del re dei formaggi hanno fatto incassare 2,9 miliardi di euro (dati 2023); la quota dall’export in tutto il mondo è del 47%. Di questa quota il 22,5% è venduta negli USA. In pratica 1 forma su 10 di parmigiano-reggiano è destinata al mercato dei 50 stati americani.
Cosa sarebbe successo con dazi del 20%? Secondo stime attendibili il prezzo al consumo del 24 mesi sarebbe passato dagli odierni 50 dollari al kg a 59 dollari/kg. Un aumento del genere avrebbe frenato il consumatore a stelle e strisce? Il timore era forte, seppur non espresso in maniera diretta dai vertici del Consorzio del Parmigiano-reggiano.
«Saremmo entrati in un periodo di fluttuazione con elevato rischio per i produttori – dice Saverio Delsante, allevatore e produttore di parmigiano-reggiano – ma questo perché pur essendo la base siamo l’anello debole. Sono i dati Ismea a dirlo: il valore pagato dal consumatore va al 20% all’agricoltore, il 30% al caseificio che trasforma, il 50% al grossista e alla GDO. Sono questi ultimi a decidere il prezzo finale. L’imposizione dei dazi va vista in questo rapporto, col rischio di un calo del prezzo di remunerazione della filiera per compensare il costo del dazio, in teoria un problema per il grossista ma di fatto chi assorbe il rischio finale è il produttore. Insomma si innescherebbe un processo speculativo inverso».
«La questione dazi va inquadrata su almeno tre livelli. – spiega Filippo Arfini, docente di economia agroalimentare dell’Università di Parma – Partiamo dalle grandi aziende, multinazionali o no, che hanno già insediato da tempo una loro produzione negli Stati Uniti. Pensiamo alla Barilla che ha uno stabilimento di pasta ad Aimes nell’Iowa, uno stato della corn belt, dove si produceva solo mais che invece ha diversificato in grano duro. Possiamo dire sommariamente che per queste aziende i dazi non incidono. Chi sarebbe veramente colpito, e siamo al secondo livello, è l’industria della meccanica alimentare (come evidenzia il rapporto UnionCamere). L’invenzione della Food Valley non è solo cibo, ma anche brevetti e capacità uniche nell’industria di trasformazione che vedono qui presenti i leader mondiali. Ormai nel ricambio generazionale in larga parte queste aziende sono passate di mano, dalle famiglie dei fondatori a grandi gruppi anche stranieri. Il fatturato è in massima parte derivante dall’export, si tratta di un’industria poco resiliente, altamente specializzata che fatica a reinventarsi e con un personale di alto valore aggiunto. È l’altro lato della genialità del prodotto. Con dazi elevati (e già ci sono quelli su acciaio e alluminio) c’è il serio rischio di un contraccolpo».
«Il terzo livello è quello del prodotto tipico, a denominazione d’origine protetta – continua Arfini – e qui mi permetto di andare controcorrente e dire che non tutto il male viene per nuocere. Intanto iniziamo col dire che in Europa e in Canada il marchio dop è riconosciuto e protetto. Negli USA non c’è protezione, devi pagare un trademark stato per stato, tanto che prolifica il “parmesan”. Ma onestamente non c’è paragone tra quel formaggio e il nostro parmigiano-reggiano. La qualità dei nostri prodotti è innegabile e riconosciuta dai consumatori che possono permetterselo.
Tanto è vero che negli ultimi dieci anni la produzione di parmigiano-reggiano è aumentata di 1 milione di forme, di fatto tutte destinate all’export. Sono dati ufficiali. E proprio qui sta il punto. Produrre così tanto vuol dire importare molta più soia, come mangime, e aumentare in quantità rilevante gli scarti, le deiezioni e le emissioni inquinanti che impattano sul nostro territorio. E tutto questo per vendere agli americani? … Attenzione: io non dico che piccolo è bello, ma una riflessione va fatta. E forse non a caso in questi giorni di rinnovo dei vertici del Consorzio del Parmigiano-Reggiano si è innescata una polemica poiché sono entrate le grandi aziende come Lactalis e sono rimasti fuori i piccoli caseifici della montagna reggiana. Certo non è più il tempo dei mille caseifici, ma per tenere quei ritmi di produzione le stalle passano da 100 a 500, 1.000 capi bovini e si pone una questione etica e ambientale. Se il prezzo del latte dovesse scendere da 30 € a 25 € al quintale, cosa succederebbe? Lo stesso discorso vale per i vini. Tanto che oggi chi volesse fare l’agricoltore si trova delle barriere enormi all’ingresso, impiantare un vigneto è diventata una roba da capitalisti e d’altronde, in generale, si va verso un’agricoltura industriale. Al contempo ci sono e rimangono piccoli agricoltori che se la cavano molto bene sul mercato, senza esportare niente».
In questo week-end ci sono i caseifici aperti. Vale sempre la pena andare a conoscere da vicino “come si fa” il parmigiano-reggiano. Approfittatene per chiacchierare con casari e allevatori e chiedere come la pensano su dazi, filiera e evoluzione dell’agricoltura.
Francesco Dradi
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Sentitevi liberi di contribuire!