E se le piazze fossero il confine più netto tra destra e sinistra?
Forse è proprio in piazza che si manifesta — in senso letterale e simbolico — quella differenza tra destra e sinistra che molti giudicano ormai superata, impolverato souvenir per nostalgici del secolo scorso. Negli ultimi giorni, le manifestazioni di solidarietà alla Flotilla e contro il genocidio israeliano a Gaza che hanno attraversato l’Italia, hanno riportato in superficie una frattura che non riguarda soltanto la visione politica e geopolitica, ma una diversa idea di cittadinanza e partecipazione.
Quelle piazze, indubbiamente collocabili a sinistra, sono state duramente criticate da destra. In molti dei commenti non tanto dei leader politici, ma dell’opinione pubblica, almeno di quella parte che abita i social network, emergeva una convinzione semplice e netta: “perchè manifestate per qualcuno che sta a migliaia di chilometri da noi, e non fate nulla quando in Italia ci sono pensioni da fame, stipendi bloccati, liste d’attesa infinite nella sanità pubblica?”. Un’altra argomentazione largamente diffusa non era meno utilitaristica: “per chi sta a Gaza il giorno dopo non è cambiato nulla, mentre io ho trovato la tangenziale bloccata”.
Sono obiezioni che, a modo loro, contengono una logica. Ma che ci mostrano anche un tratto profondo che dal ‘900 sembra essere giunto intatto nella cultura politica contemporanea: essere di sinistra significa anche mobilitarsi per cause che non ti toccano direttamente, mentre chi è di destra scende in piazza per difendere o rivendicare qualcosa di più vicino nel tempo e nello spazio.
Basta ricordare cosa è accaduto solo poche settimane fa, quando una parte consistente dell’opinione pubblica italiana — soprattutto quella di destra — guardava con simpatia e ammirazione alle manifestazioni francesi contro la riforma delle pensioni. “loro sì che si fanno sentire, mica come noi che stiamo qui inerti a subire gli abusi del potere”. Quelle piazze (assai più violente e incendiarie di quelle di casa nostra) piacevano proprio perché i francesi manifestavano per sé: per la propria pensione, per il proprio reddito, per la propria quotidianità. Una forma di protesta “egoistica”, se vogliamo dirla così, ma perfettamente coerente con un certo modo – oggi largamente vincente in tutto il mondo – di intendere la politica come difesa dei propri interessi e confini, materiali e simbolici.
Al contrario, le piazze pro-Gaza — con tutte le loro contraddizioni, con le tensioni e i limiti che si possono criticare — nascono da un impulso diverso: quello di mettersi nei panni di qualcun altro, di allargare lo sguardo oltre la propria quotidianità, di sentire come intollerabile un’ingiustizia anche quando non la subiamo noi o qualcuno che appartiene alla nostra stessa tribù.
Ecco allora che nella piazza si rivelano due antropologie politiche, umane, culturali opposte. Da una parte, quella che misura il valore dell’impegno sociale sulla base del “qui e ora”: “Perché devo preoccuparmi di chi è lontano, se qui le cose non vanno?” Dall’altra, quella che ritiene che proprio la distanza sia la prova della solidarietà più cristallina: “Se mi muovo solo per ciò che mi tocca, non è più impegno, è interesse.”
Forse è un segno dei tempi che questa differenza sia evidente ormai quasi solo lì, nella ritualità di un corteo e degli striscioni scritti a mano. La sinistra, ancora, tende la mano oltre il proprio recinto. La destra, ancora, sta chiusa dentro e difende ciò che è suo. In un’epoca in cui le ideologie si sono sfilacciate e le appartenenze si confondono, è la piazza — disagevole, imperfetta, scomposta — a ricordarci che non tutti intendiamo la parola “noi” nello stesso modo.
Rolando Cervi
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Sentitevi liberi di contribuire!