Il re è nudo ed è uno spettacolo indecente
Oramai è il segreto di Pulcinella, e gli ultimi veli probabilmente cadranno presto, sulla storiaccia di molestie e violenza sessuale che riguarda il famoso regista e il prestigioso teatro che ne esce infangato pesantemente. E anche Parma non ne è immune, seppur abituata agli eccessi negli scandali.
In questa tristissima vicenda si intersecano diversi livelli e non è facile dipanarli. Proviamo a ricostruirli dicendo quel che si sa e quel che non si può dire, spiegandone i motivi.
Il caso è stato a lungo in sordina, pur con la prima inequivocabile sentenza nell’estate 2024, sezione lavoro, giudice Moresco, su ricorso della consigliera regionale di pari opportunità, Alvisi. Sentenza confermata in appello. Le domande risarcitorie furono dichiarate inammissibili (la consigliera regionale non ha titolo per chiederle) e il giudice si limitò a ordinare di adottare il piano di rimozione delle discriminazioni. Un successivo ricorso, presentato dalle due attrici vittime, ha portato invece nel settembre 2025 alla sentenza, sempre del Tribunale di Parma, sezione lavoro, giudice Zampieri, alla condanna con risarcimento del danno, rispettivamente in 24.571 euro e in 82.057 euro.
La notizia è diventata di dominio pubblico nei giorni scorsi a seguito della conferenza stampa indetta a Roma dalle associazioni D-Differenza donna e Amleta che raccolsero per prime le denunce delle attrici vittime, perché, giustamente, il caso è di valenza nazionale: un “me too” italiano.
Nel diffondere la notizia si dice e non si dice, perché c’è la giusta e sacrosanta tutela delle vittime e c’è la sentenza oscurata nei nomi e cognomi, per privacy. Viene reso noto che è coinvolto un teatro di Parma che, in solido col regista, dovrà risarcire le due vittime.
La cosa è troppo grossa per fermarsi qui: non è “solo” violenza sessuale, è un caso abnorme di abuso di potere, riguarda e interroga il mondo della cultura e del teatro in specifico. È una “prima” volta che viene scoperchiata.
Immediato per noi, come per altre testate giornalistiche, si è posto un doppio interrogativo: legale e deontologico. E qui c’è una piccola riflessione di premessa ai fatti, forse ridondante ma che ritengo opportuna.
Il mestiere di giornalista comporta un dovere morale di dare le notizie anche se scomode e fare i nomi, non per voyeurismo o giustizialismo, ma per informare i lettori, appunto, rendere edotti e consapevoli su cosa succede in città e nel mondo.
Un’informazione onesta e trasparente va a braccetto con la democrazia che, pur piena di difetti, rimane il migliore dei sistemi di governo della società umana. Una democrazia matura è capace di darsi dei contrappesi per evitare che, nel nostro caso, si sbatta “il mostro in prima pagina” non per tutelare il mostro ma le vittime di cui spesso ci si dimentica, specialmente quando continuano a vivere.
All’aspetto deontologico si aggiunge quello legale. Una stimata collega mi ragguaglia sul fatto che tutte le sentenze civili (come quelle del tribunale del lavoro) sono oscurate per motivi di privacy. E a questo oscuramento si debbono attenere le parti coinvolte e, parimenti, chi ha ruoli istituzionali e, anche, i giornalisti.
Tuttavia la sentenza è pubblica e chiunque può ottenerla e divulgarla. E, non a caso, c’è chi l’ha fatto in modo sbrigativo e, chi vuole cercarla, la sentenza, la trova abbastanza facilmente sul web, così come le precedenti di primo grado e appello.
È un cortocircuito, sono d’accordo. Di più: in questo caso il tilt è clamoroso e, data la rilevanza dei soggetti e dell’argomento, l’esito è stato opposto alla pretesa di riservatezza: si è scatenata una ricerca morbosa di nomi dei e delle protagoniste per sapere “chi” ha commesso il fatto, chi l’ha subìto, chi lo ha coperto e se c’era un sistema dietro e chi ne era coinvolto.
In più, a causa di sviste e della crudezza dei dettagli scabrosi delle testimonianze, riportate senza filtri nell’ultima sentenza, reperibile online, si è in grado di sapere tutto e di arrivare ai nomi per deduzione.
Questa cosa è proprio sfuggita di mano e, chiudendo questa premessa, mi sento di dire che una riflessione sulle “regole” andrebbe fatta: dai politici in funzione legislativa, dai magistrati, dalle associazioni di rappresentanza e, naturalmente, da avvocati e giornalisti.
Ci si domanda, tra addetti ai lavori, se per togliere l’ultimo velo, le vittime saranno costrette a esporsi una seconda volta, per poter fare circolare pubblicamente il nome del loro aguzzino. O se prudenzialmente dovranno attenersi alla secretazione del tribunale.
Peraltro il terribile caso francese di Gisèle Pelicot ha sovvertito il punto di vista e non sono più le vittime di stupro a doversi vergognare ma il violentatore, smascherato nella sua brutalità.
Andiamo ai fatti. Il re è nudo e, purtroppo, non c’è metafora più appropriata.
Nella cerchia teatrale il famoso regista veniva appellato “re”, con l’aggiunta di un attributo. Ed è paradossale ma c’è un passaggio oscurato, nella prima sentenza del 2024, che sembra proporre il termine “re”. È un testimone a parlare e partiamo da qui per dare la visione d’ambiente.
“Che il “re” avesse un certo atteggiamento nei confronti delle donne era noto ma non si capiva fino a che punto. Si sapeva che era una persona manipolatoria che cerca di convincerti a fare quello che vuole lui, era palese. L’ho provato anche io questo atteggiamento manipolatorio sulla mia pelle ma non sessualmente».
“Se lo decido io, tu non metti più piede in nessun teatro d’Italia” dice il regista a una delle vittime – si legge nella sentenza che circola online – la quale specifica: “Ricordo che mi provocava terrore. In un’altra occasione al posto che chiamarmi per nome mi ha chiamato “puttanella” e nessuno ha detto niente: c’erano gli attori fissi al Teatro che sono una decina. Mi invitò a sedermi di fianco a lui in platea dove mi ordinò di baciarlo. lo non lo feci ma fu lui a baciarmi. Io avevo la bocca chiusa e lui mi ordinò di aprirla. Ricordo la sensazione di schifo che ho provato ma non ho la percezione fisica di quello che è successo”. Il resoconto dell’attrice prosegue nel descrivere la molestia sessuale coercitiva ed esplicita sull’organo genitale del regista. E poi sono ripercorsi i casi di vera e propria violenza.
La magistrata del Tribunale del Lavoro – perché anche questo è un aspetto peculiare della vicenda, ossia non una denuncia penale, per la quale erano scaduti i termini, ma un ricorso alla sezione del lavoro del tribunale da parte della consigliera di pari opportunità della Regione Emilia-Romagna, in quanto ente finanziatore del corso di alta formazione per attrici e attori di teatro, nell’ambito del quale sono accadute le molestie, nel 2019 – la magistrata nel secondo processo, dicevamo, riascolta le vittime e le testimoni e questo permette di evincere che una violenza sessuale commessa dal regista, per un rapporto non consensuale e imposto, ai danni di un’attrice, avvenne nel 1998.
Nel 1998, ossia ventisette anni fa. Altri episodi di molestie o violenze, si evince dalle testimonianze, sono avvenute nel 2007 e nel 2014. Un’altra teste dichiara che una persona che lavorava nel Teatro almeno dal 2018, “mi aveva messo in guardia dicendomi di stare lontana da lui per evitare situazioni spiacevoli”.
Nella prima sentenza si citano, oscurate, sette donne che avrebbero subito molestie o violenze da parte del regista.
Basterebbero queste circostanze, che nel processo servono a corroborare le ragioni delle vittime, ad aprire uno squarcio su vari aspetti. Il primo è sul disvalore di quest’uomo a lungo venerato come un genio del teatro, a cui sono state aperte porte e palcoscenici di prestigio, in giro per l’Italia. Ammesso e non concesso che avesse davvero delle qualità creative, avrebbe ingannato tanti e abusato ignobilmente della posizione di potere in cui era assurto, soddisfacendo gli appetiti sessuali approfittandosi delle donne attrici, o aspiranti tali, in condizione di subalternità.
Inevitabile la domanda su quanti sapessero e abbiano coperto. Più volte, nel procedimento, viene indicato che il regista si presentava tardi alle prove, oltre due ore dopo, per trattenersi fino a notte fonda, possibilmente da solo con la malcapitata. Altri episodi sono accaduti in ristoranti, vuoti per la tarda ora e altri ancora al domicilio dell’uomo.
La magistrata condanna in solido la direzione del teatro: “Questo Giudice ritiene (che) l’illecito debba essere addebitato all’Ente, quale titolare di una posizione di garanzia, a titolo di responsabilità (individuale) omissiva impropria; non può revocarsi in dubbio che la stessa sia, parimenti all’autore dell’illecito, dal momento che, come noto, “non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”.
Per questo motivo sono giunte, da diverse parti (ad esempio dal sindacato Slc-Cgil e dalla Casa delle Donne), richieste di dimissioni della direzione del Teatro. Questa argomentazione si basa sostanzialmente sul “non poteva non sapere”. L’interrogativo è legittimo quanto aperto.
Va detto che il cda del Teatro non appena citato in giudizio, nel 2021, ha destituito il regista da tutti gli incarichi. Contro di lui, inoltre, sarebbe stata avviata un’azione risarcitoria.
Un altro aspetto è che, presto o tardi, si imporrà una “riscrittura” della storia del teatro, come avvenuto nel Tour de France dove il campione dopato è stato cancellato senza indugi dall’albo d’oro. Nel caso parmigiano sarà più doloroso e però doveroso andare a fondo perché, oltre alle donne attrici, è il teatro stesso, che vive nelle rappresentazione di drammi e commedie la massima interpretazione della libertà, a essere stato tradito e vilipeso.
La città di Parma, non dubitiamo, saprà riflettere chiedendo scusa alle donne vittime di questa violenza, sperando che da questa amara vicenda si possano ideare contromisure efficaci, a partire da strumenti di educazione sessuo-affettiva non solo per le scuole, e di prevenzione nei luoghi di lavoro.
Come uomo mi fa rabbia sapere che un concittadino abbia approfittato così vilmente della sua posizione di potere per commettere violenze sulle donne. Che questo sia accaduto nel mondo della cultura è ancora più riprovevole. Il timore è che possa avvenire anche in altri settori. Non mancherà il mio impegno, e della redazione di Parma Parallela, nel raccontare questa e altre vicende, così come nel sostenere la dedizione di coloro che provano a cambiare le cose.
Una prima iniziativa denominata “Rompere il silenzio”, incontro sui teatri della violenza e sulla sentenza del Tribunale del Lavoro di Parma, si terrà domani alla Casa delle Donne alle ore 12. Interverranno diverse protagoniste, qui la locandina.
Per approfondire il tema alcuni link. La dichiarazione congiunta di sindaco Guerra, vicesindaco Lavagetto e assessora alle pari opportunità, Bonetti. L’editoriale del giornalista Donelli di Parma Today; la lunga e articolata riflessione del sociologo Deriu dell’associazione Maschi che si immischiano. Le prese di posizione della Casa delle Donne.
Francesco Dradi



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